ESTER FORMATO – Come una forma di una prua della nave che sconfinava nello spazio riservato al pubblico, era il palcoscenico elisabettiano; nella “platea” vi erano spettatori che al solo costo di un penny assistevano in piedi agli spettacoli, mentre nelle tre gallerie che cingevano da più lati l’assito stavano i posti a sedere.
È ciò che il progetto Glob(e)al Shakespeare, firmato da Gabriele Russo, ha ricreato al teatro Bellini di Napoli; per tre sere è stato infatti trasformato in una pianta circolare, vale a dire quello spazio teatrale a cui Shakespeare guardava mentre componeva i suoi testi.
Collocata sino al centro della sala che ha visto il temporaneo espianto di buona parte delle poltrone, la scena è una lingua grigia con botole, spazi inferiori praticabili sulla falsariga del teatro elisabettiano, ed ha visto l’alternarsi in tre serate di ben sei testi di Shakespeare, affidati alla riscrittura di compagnie o drammaturghi, facendo zigzagare il pubblico fra tragedia e commedia.
Con un adattamento di Fabrizio Sinisi e la regia di Andrea De Rosa, Giulio Cesare dà il via a questa filata scespiriana, con un allestimento sobrio, dai suoni e giochi di luci metallici il cui tempo è scandito dal deflagrare di un enorme palla di sabbia che diviene terra da gettare nel sepolcro di Giulio Cesare, appena assassinato da Bruto e Cassio, terra o sabbia che un quarto personaggio, Marco Antonio, solleva con una pala per quasi tutto il tempo. Tale scansione assolve ad un’idea di sospensione e tensione che permeano tutto quanto lo spettacolo. D’altro canto l’immobilismo con cui Cassio, Bruto e Casca sono avvolti – si ergono per gran parte della durata da botole che contornano il “sepolcro” di Cesare – è coerente a questa sorta di tensione rarefatta, postuma all’azione già avvenuta del cesaricidio (il testo originale, invece, contempla un Cesare ancora vivo). Tale compressione temporale risulta vincente perché non è più l’omicidio che tormenta i tre cospiratori, quanto l’idea che la Res Publica sia ormai naufragata con la tirannia di Cesare, tirannia alla quale lo stesso popolo sembra aver abiurato. Da questa prospettiva i personaggi assumono un senso tragico più che contemporaneo, estorcendo dalla tragedia scespiriana non tanto la funzione tirannicida, quanto la progressiva presa di coscienza dell’impossibilità, con l’accentramento (inevitabile) del potere da parte di uno solo, di preservare la libertà politica tanto vagheggiata prima di Giulio Cesare.
Del tutto deprivati di una qualche caratterizzazione classicheggiante, Bruto, Cassio, Casca e Marco Antonio ci sono restituiti come dei politici di ogni tempo; Antonio è colui cui spetta la parte finale, con un microfono il cui suono echeggia in tutto il teatro. Come fossimo cittadini romani, egli rivolge a noi la sua difesa nei confronti del tiranno defunto; la narrazione del 43 a.c. (la guerra civile) diviene cronaca di un conflitto dei nostri giorni, ma forse è questa virata l’unica cosa a non convincerci del tutto, in quanto non restituisce completamente il dramma di quella parte della storia romana, che fu il passaggio dalla Repubblica all’Impero, trasfigurato da Shakespeare tragicamente nella coscienza dei suoi protagonisti.
Di ben altra natura è Una Commedia degli errori, riscritta da Marina Dammacco, Gianni Vastarella ed Emanuele Valenti di Punta Corsara. Ci spostiamo nella New York di inizio novecento. Se sostanzialmente si segue la partitura dei primi atti originali, la virata appare sul finale. La compagnia napoletana non dimentica quanto il testo scespiriano (che narra dei due gemelli più i loro servi separati sin dalla nascita) si rifaccia ai riferimenti plautini e con essi ellenici, dando rilievo attraverso un gioco di botole e passaggi, nonché degli equivoci disseminati nella vicenda, alla figura del servo quale regista del dramma, affidandogli proprio una caratterizzazione metateatrale che suggella con dovuta leggerezza una commedia i cui canoni classici rischierebbero di renderla stucchevole per il nostro sguardo contemporaneo, d’altro canto avvia un rapporto ludico e critico con la commedia stessa, sfiorando la metanarrazione.
Con una mescolanza linguistica ed espressiva la riscrittura di Punta Corsara, congiunta alla dinamica sequenza dei quadri che caratterizza parte dei suoi lavori, riprende agevolmente l’essenza della scrittura scespiriana, facendo emergere – attraverso una serie di registri differenti – tutta l’estrosità barocca incuneandola in una drammaturgia più che moderna.
Con Tito Andronico – adattamento di Michele Santeramo e regia di Gabriele Russo – ripiombiamo nel freddo disegno di luci. Se alcuni studiosi hanno spesso insistito sulla natura spuria dell’opera per la scrittura troppo poco curata, meno scespiriana del solito con le lunghe prose all’interno, quest’allestimento si preoccupa, al contrario, di adeguare al testo un’ulteriore teatralità, se così possiamo dire, che rende il generale che ha sconfitto i goti il regista di uno spettacolo in cui la crudeltà della storia si trasforma, secondo una direzione metateatrale, in farsa. Sembra infatti che alla natura troppo “senecana” della tragedia, che ne compromette raffinatezza e agibilità scenica (almeno per la nostra sensibilità), si sia trovato il rimedio con il teatralizzare le cifre più espressionistiche del lavoro, trasformando lo stesso Tito in regista dei personaggi che gli ruotano attorno. Sperimentiamo che la tragicità ed il grottesco – la farsa – sono più vicini di quanto pensiamo, ed è lo stesso Shakespeare a suggerircelo nella sua scrittura. L’emersione di questo tratto scelto da Santeramo e Russo ci consente di attraversare un’opera che percepiamo ormai lontana.
I personaggi sono intrisi di un che di artaudiano, anche qui come con Punta Corsara succede che riemergono caratteri unici nell’opera di Shakespeare, spostandone l’asse, ponendogli uno sguardo altro.
Infine, Le allegre comari di Windsor – adattamento Edoardo Erba e regia Serena Sinigaglia – ci immergono in una coralità femminile tutta civettuola e sapida, costituita da Mrs. Page, Mrs. Ford, la vivacissima Quickly ed Anna Page che, rispetto al testo, acquista più rilievo. L’adattamento si concentra prevalentemente sui convegni tutti al femminile che hanno per oggetto Falstaff che accende gli spiriti delle due borghesi, facendo in modo che le figure maschili risultino come una sorta di pantomime oppure impersonati, come nel caso dello stesso Falstaff, da una delle quattro. Lo spettacolo si arricchisce dei pezzi cantati di Verdi conferendo all’opera una tenuta da operetta buffa, estrapolando dal testo una vis comica dai caratteri popolari e traslandola in scena con moduli farseschi; sebbene all’apparenza l’idea estetica di fondo restituisca alla pièce un carattere un po’ retrò, la vivacità dialogica e la buffa caratterizzazione dei personaggi consentono il transito alla nostra sensibilità contemporanea, dando brio a tutto l’adattamento in concomitanza con la regia che riesce a ricreare un meccanismo scenico coeso sospeso fra burla e raffinatezza.
GIULIO CESARE. UCCIDERE IL TIRANNO
con Nicola Ciaffoni, Daniele Russo, Rosario Tedesco, Isacco Venturini
regia Andrea De Rosa
UNA COMMEDIA DI ERRORI
adattamento Marina Dammacco, Emanuele Valenti ,Gianni Vastarella
con Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella voce registrata Adriano Pantaleo
regia Emanuele Valenti
uno spettacolo di Punta Corsara
TITO
adattamento Michele Santeramo
con Roberto Caccioppoli, Antimo Casertano, Giandomenico Cupaiuolo, Gennaro Di Biase, Piergiuseppe Di Tanno, Maria Laila Fernandez, Fabrizio Ferracane, Daniele Marino, Francesca Piroi, Filippo Scotti, Isacco Venturini
regia Gabriele Russo
LE ALLEGRE COMARI DI WINDSOR
adattamento Edoardo Erba
con Mila Boeri, Annagaia Marchioro, Chiara Stoppa, Virginia Zini, Giulia Bertasi
regia Serena Sinigaglia