ILENA AMBROSIO | Dieci tra i giovani allievi di Giorgio Rossi e Raffaella Giordano, Artisti Associati di Sosta Palmizi per affrontare quella che è, di certo, una delle questioni da inserire nella categoria “antropologicamente universale”: la felicità, il suo senso, la sua “consistenza”, la sua spasmodica, costante, spesso ossessiva ricerca.
Ciò che Giorgio Rossi pare aver voluto creare è un puzzle, in insieme frammentario di elementi che non può o, forse, non vuole comporsi in unità.
All’apertura del sipario gli interpreti stanno lì, in piedi sulla scena occupandone l’intero spazio: dieci unità che, nel corso dello spettacolo interagiranno in vario modo ma che, per ora, sono monadi autonome, a metà tra la caratterizzazione e l’indefinitezza. Ciascuno di loro ha un costume, un trucco, anche una postura ben precisi ed estremamente diversi dagli altri, eppure sembra difficile collocarli in uno spazio e in un tempo. Una vamp dai movimenti sensuali e il trucco eccentrico, una casalinga con scamiciato da casa e grande fiore a raccogliere i capelli; un tipo strano con abito laminato che sembra arrivare dagli anni ’70 o, un altro, con camicia e bretelle da ragazzo di campagna… Ma chi sono questi individui? Il processo di identificazione da parte dello spettatore, che pure ci si aspetterebbe dato il tema “universale”, è già confinato nell’impossibile. Si ha l’impressione di avere di fronte dei “tipi umani” definiti ma astratti dal loro contesto, che mutano e si combinano in corso d’opera per restituire, di volta in volta, un frammento diverso del puzzle.
E frammenti sono le parti che compongono lo spettacolo: tra danza, canto, e recitazione si susseguono cellule d’azione estremamente differenti tra loro, a ritmo serratissimo, alternando coralità a individualismo, visioni collettive ad altre individuali.
Il movimento è, ovviamente, fulcro del lavoro. Controllato, strutturato in modo sempre differente; ma anche puro, istintivo, in alcuni frangenti rapsodico. Movimento che a tratti unisce i personaggi in composizioni coreografiche d’insieme – commovente la coreografia di Uccelli di Battiato –, in altri frangenti invece, divide, lasciando ogni singola monade alla propria specifica gestualità. In questo gli interpreti sono davvero magistrali. Lo spazio è costantemente sfruttato nella sua interezza: che siano tutti coinvolti, o solo alcuni o che anche l’azione sia affidata a un singolo, la scena tutta si riempie dell’energia emanata dai loro corpi in movimento esprimendo, questo sì, la pura gioia del danzare.
A rispecchiare la varietà del gesto tanta musica. Una colonna sonora che spazia tra i generi più diversi: Chris Isaak, Battiato, Beatles, Calexico, l’Inno alla gioia intonato dagli stessi interpreti, una canzone rap.
Alternate o a fare da cornice a questi momenti, scene recitate, sketch, veri e propri mini spettacoli nello spettacolo, monologhi. Il quadro iniziale, racconto di una nonnina − impersonata da un ballerino che “entra nel ruolo” indossando uno scialle di lana – miracolata da Padre Pio; l’itervista di una provinciale giornalista alla star internazionale Blue, improbabile guru di una filosofia della non felicità; la (quasi) esplosione di un kamikaze della “Big Jim – Brigata Internazionale Gioia/ Joy International Movement”.
Da tutto ciò vari ed eventuali spunti di riflessione – la gioia della fede? la superficialità del mondo dello spettacolo? ironia sul terrorismo? – che, tuttavia, restano privi di seguito, anche loro frammenti monadici di un discorso che non trova compimento.
Le parole sono tante. Parole che, di certo volutamente, sembrano dette tanto per dire come gli elenchi di ciò che può rendere felice: «Arrivare al distributore prima di finire la benzina… Trovare sul tavolo i fiori non appassiti… Il rossetto nero ciliegia di Chanel». Si ha l’impressione che tutto resti costantemente sulla superficie, limitato a una materialità, a un’apparenza, che impediscono di andare in profondità, al senso vero delle cose come si tenderebbe a fare dato il tema trattato.
La chiave di tutto, allora, potrebbe stare in quella che pare essere la vera protagonista del lavoro: l’ironia. Esplicita, frizzante, a tratti sfociante in comicità, l’ironia colora della sua tinta ogni istante dello spettacolo. E, se presupposto fondamentale dell’ironia è la distanza, viene allora da pensare che un titolo come Sulla felicità sia già una prima indicazione a rimanere sopra la superficie delle cose, a valutarle con leggerezza, a non prenderle troppo sul serio.
Se non che quando la rapsodia si placa quel senso più profondo pare, timidamente, affacciarsi. Al termine di una scena dominata dal caos che, come una climax, raggiunge il culmine in un ballo sfrenato, il silenzio accoglie parole che sembrano proporsi come vere, immagini vere di felicità, quella, forse banale, delle piccole cose ma, come comunemente si sostiene, la sola umanamente raggiungibile: «Mio nipote che nasce… Quando mio padre mi abbraccia, due o tre volte nella vita… Ridere senza sapere sotto la pioggia». La coralità, allora, diventa fratellanza e le monadi, finalmente divenute persone, guardano insieme, vicine, con sguardo ora sincero verso il pubblico.
Sipario, applausi è quello che ci si aspetterebbe e quello che, in effetti, si lascia crede allo spettatore. Del resto, dopo tanta varietà e densità d’azione, un finale del genere, seppur un tantino melenso, sarebbe comprensibile. Ma, ancora una volta, le previsioni saranno disattese. «Giorgio sei pronto? E allora musica..». Il racconto della città che si chiama Felicità, in cui tutti, parroco, fedeli, poliziotti, finanche ladri e prostitute, sono felici affida l’ultima parola ancora una volta all’ironia.
Un ultima parola esilarante, senza dubbio, ma che lascia, a voler essere sinceri, con un po’ d’amaro in bocca. Per l’intero spettacolo, alla fine di ciascun momento dell’azione, lo spettatore attende un segnale, un indizio che gli permetta di comprendere il filo drammaturgico che tiene insieme il tutto; indizio che sistematicamente non arriva. La poetica del frammento, quella del non-senso, l’utilizzo dell’arma dell’ironia per distogliere dal cercare un senso profondo a tutti i costi, sono certamente elementi plausibili per leggere un lavoro come questo.
Tuttavia, proporre una riflessione sulla felicità crea un orizzonte d’attesa che non può essere deluso, una richiesta di senso che non può essere sottovalutata e che, nonostante l’affascinate prova dei protagonisti, in questo lavoro, non trova, alla fine una risposta.
Sulla felicità
Ideazione coreografica
e direzione artistica Giorgio Rossi
Autori e danz/attori Mariella Celia Eleonora Chiocchini, Olimpia Fortuni
Gennaro Lauro, Francesco Manenti, Daria Menichetti, Fabio Pagano
Valerio Sirna, Cinzia Sità, Cecilia Ventriglia
Luci Marco Oliani
Roma – Teatro Argentina
13 e 14 giugno 2017
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