ILENA AMBROSIO | Quando non so cosa fare cosa faccio? La proposta di Antonio Tagliarini e Daria Deflorian è l’audioitinerario teatrale in ambiente urbano svoltosi (d)al Teatro India dal 19 al 24 giugno.
Muniti di auricolari e guidati da Tagliarini, gli spettatori (limitati a un massimo di trenta) seguono l’attrice lungo Viale Marconi e tra i vicoli che lo intersecano, sostando in negozi, cortili, parcheggi.
La non casualità del percorso è spia di una cifra caratteristica nei lavori della compagnia, l’essere, per così dire, “meta-letterari”: da Reality a Rewind, passando per Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, lo stimolo inziale, l’immagine di rifermento, è tratta da un altrove artistico del quale lo spettacolo diviene, a suo modo, citazione, esito riflessivo.
In questo caso l’immagine restituita è quella di Adriana, protagonista del film di Antonio Pietrangeli Io la conoscevo bene. Elemento di contatto: Roma, esattamente la Roma che fa da sfondo alla vicenda. Lungo l’intero il tragitto Adriana sarà riferimento costante della performer, stimolandone pensieri, ricordi autobiografici, osservazioni. Il suo stesso progredire con leggerezza o, in alcuni frangenti, perdendosi drammaticamente, richiama quel personaggio apparentemente semplice eppure sintesi complessa di incosciente serenità e consapevole sofferenza.
Le scene del film più volte rievocate sono persino, in qualche modo, rivissute quando ci si ritrova proprio nei luoghi che le avevano ospitate. Le musiche, canticchiate, ascoltate dall’autoradio in un parcheggio, cantate da una giovane donna nel sottoscala di un cortile, diventano colonna sonora della performance rendendo ancora più tangibile l’alias artistico cui si riferisce.
Il film c’è, dunque, è presente e lo è anche a livello formale. La guida di Tagliarini permette allo spettatore di adottare punti focali tipici del linguaggio cinematografico – numerosi e ben pensati i campi lunghi e le visuali dall’alto che, i alcuni casi, quando la figura della Deflorian sparisce, implicano particolari effetti di voce, a volte anche di silenzio, fuori campo. Viene in mente Agoraphobia: lì la voce della Deflorian, giungeva, inizialmente, da un punto sconosciuto del luogo prescelto, inducendo i partecipanti a guardarsi intorno, cercandola. Ma nell’audiopercorso ideato da Lotte van den Berg, la performer, nella strenua ricerca di un contatto, fa e dice cose non comuni, a volte sconnesse, con toni spesso sopra le righe della consueta conversazione. Un’atmosfera che già dal titolo si annuncia come, potremmo dire, patologica.
Qui, invece, ciò cui si assiste o, meglio, si partecipa, è la comunissima passeggiata di una donna – Daria è «fuori servizio», è «proprio lei» − che, quando non sa cosa fare, cammina, pensa e osserva. E la realtà è, quanto il film, ben presente. Non è difficile comprenderlo: assumere a propria scena d’azione lo spazio aperto significa anche abbandonarsi a esso, alle sollecitazioni che può dare, agli imprevisti che implica l’attraversarlo. A ciò che della performance è stato programmato, allora, si aggiunge ciò che può accadere senza previsione, la realtà, appunto, che interseca la fiction del copione, necessariamente mutandola.
La particolarità di questo lavoro è questa: una continua e intricata sovrapposizione tra piani percettivi e semantici, tra movimenti del pensiero.
C’è lo spettacolo: lo spettatore guarda e ascolta un’attrice mentre segue un copione; tuttavia, nello stesso momento è lui stesso a vedere ciò che lei vede, a sentire ciò che lei sente e, a sua volta, a essere guardato da un altro pubblico, quello delle persone incontrate casualmente per strada. Lo spettatore pensa i pensieri di Daria ma anche i propri da quelli messi in moto. Fiction e realtà si intrecciano perdendo i propri confini.
Poi c’è Adriana la rievocazione della quale crea quel corto circuito tra la Roma di allora e quella presente facendocele quasi vedere come una foto composta da due immagini sovrapposte.
C’è un filo che tiene unito il tutto e tutti? Forse sì, forse un sentimento che era tanto di Adriana, quanto della Daria che passeggia per le vie di Roma, quanto, ancora, dello spettatore che la segue: la solitudine. Una solitudine assunta come normale condizione di vita, come abitudine di abbandono ai propri pensieri, al vuoto, all’immobilità. Eppure Daria fa finta di essere sola, assieme a lei, ad ascoltare e accompagnare la sua solitudine, ci sono gli spettatori; così come ciascuno loro ha, accanto sé, un altro che sta vivendo la stessa esperienza. E che il senso ultimo possa essere proprio la condivisione pare dircelo il “finale” dello spettacolo.
Di nuovo al Teatro India la Deflorian accoglie il pubblico nel cortile esterno, e, in abito ottocentesco, legge un brano da Il giardino dei ciliegi di Checov. Come in Io la conoscevo bene, come adesso, il materialismo che uccide e distrugge. Il rumore dei ciliegi abbattuti diffonde la sua eco desolata ma non è il congedo. Daria offre delle ciliegie, così come ha offerto la sua solitudine e i suoi pensieri; gli spettatori le mangiano insieme come insieme, seppur nelle loro solitudini, hanno camminato per tutto il tragitto.
La condivisone allora pare essere l’ultima parola che Deflorian e Tagliarini vogliono dire, la risposta alla domanda Quando non so cosa fare cosa faccio?
Quando non so cosa fare cosa faccio?
azione performativa di e con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
e con Francesca Cuttica e Davide Grillo
collaborazione artistica di Valerio Sirna