LAURA BEVIONE | Per un artista del circo sfidare i limiti del proprio corpo è pratica quotidiana, consapevole scelta di vita: non tanto arrogante hybris – nessuna onnipotente divinità improvvidamente provocata – quanto desiderio di conoscenza, in primo luogo del proprio corpo, e poi di quanto lo circonda. Una curiosità non estemporanea né superficiale, bensì un’inquietudine incapace di requie che spinge ad abbandonare la Colombia per studiare circo in Italia ovvero dire addio a famigliari e amici per inseguire un sogno.
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I quattro performer – acrobati, giocolieri ma anche danzatori, musicisti e attori – occupano il palcoscenico spoglio con le proprie storie e con i propri corpi, che quelle stesse narrazioni portano incise fra le pieghe dei muscoli e quelle, quasi impercettibili eppure eloquentissime, che l’ansia di vivere ha inciso ai lati degli occhi.

Vengono dal Sud America, dall’Asia e dall’Irlanda questi quattro ragazzi che camminano sospesi sul filo e si arrampicano con agilità sul palo cinese, fanno volare clavette ed eseguono spettacolari evoluzioni rotolando con il cerchio. Azioni acrobatiche che – a differenza di quanto sovente avviene negli spettacoli di circo contemporaneo – non sono “numeri” affastellati l’uno dopo l’altro senza reale soluzione di continuità, bensì s’inseriscono in un discorso drammaturgico fluido e coerente, in cui parola, danza, abilità circense e musica – eseguita rigorosamente dal vivo, anche dagli stessi performer – appaiono lemmi di un medesimo vocabolario.

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Un dizionario che allude all’atavica volontà di conoscenza dell’uomo, alla sua aspirazione a oltrepassare contemporanee – e spesso intime, interne al proprio stesso io – Colonne d’Ercole e a rischiare la propria stessa incolumità per spostare anche soltanto di un millimetro il proprio limite estremo. Così, il rafforzamento del proprio corpo e del proprio carattere, la conoscenza e l’amore si accompagnano inevitabilmente al dolore – involontariamente testimoniato dalle ferite sul petto di Camillo e dal tallone slogato di Ruairi – e all’incontro con la violenza – nel finale, l’uso di una frusta che costringe a un’autoprotettiva posizione fetale. Ricercare l’estremo, tentare di oltrepassare i limiti del proprio essere e del proprio quotidiano può dunque rivelarsi anche una spinta autodistruttutiva: eppure, ci dicono l’autrice Caterina Mochi Sismondi e i suoi generosi performer, vivere davvero non può significare altro che accettare quella sfida magnifica e terribile che il destino – o chi per lui – ci ha lanciato al momento della nostra nascita.

 

 

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Regia e coreografia di Caterina Mochi Sismondi

Luci di Massimo Vesco

Elettronica e musica live di Monica Olivieri e RedRua O’Cumiscáigh

Con Jonnathan Rodriguez Angel, Camilo Jimenez, Lukas Vaca Medina, Ruairi Mooney Cumiskey.

Prod.: blucinQue e Qanat Arte e Spettacolo, in collaborazione con Fondazione Cirko Vertigo.

Festival Sul filo del circo, Grugliasco (Torino)