EMILIO NIGRO | Shakespeare e le corti. Il teatro e il potere. Intrighi, tradimenti, dissapori e alleanze, umanità a servizio dell’esercizio di governo. E per questo mutata in sembianze circostanziali, anche meschine, machiavelliche. E l’indagine dell’arte a denudarne. A mostrare la pelle, unta, sotto lo sfavillare di forme e formalismi. Senza commenti espliciti, innescando piuttosto la complicità sorniona del dubbio, del suggerimento senza parteggio.

Il Riccardo II non è tra le opere più amate e riuscite del Bardo. Verbosa, poco dinamica, minuziosamente politica e articolata per fornire un ampio e meticoloso sguardo sulle questioni di censo e di appartenenza. Svela, comunque, un universo morale e sociale, incredibilmente sovrapposto all’odierno e perciò senza tempo, immortale. La drammaturgia, ricamo d’una radice semantica poetica che la prosa, per doverosi adattamenti di scena, rende duttile, popolana, d’una efficacia cristallina. Sul verbo Shakesperiano, poco c’è da aggiungere, ogni battuta serba caratterizzazioni e significanti portanti indicazione e sconfinamento immaginifico, portanti una chiarificazione del mondo e delle sue scene, senza pari.

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La deposizione di un re. Un re medioevale, d’investitura divina, di carnificazione divina, rappresentante d’una società strutturata rigorosamente in modo gerarchico, piramidale, che divide gli uomini per ceto. Simbolo d’un mondo assoggettato a volontà astratte di cui un capo si fa fantoccio, prestanome, camuffando il dovere con il dovuto per grazia ricevuta. Cibo per creduloni. Ne conseguono trame di un fagocitarsi a vicenda per questioni di possesso. Un gioco delle parti con territori e libertà d’azione, (pre)stabiliti e (pre)destinati.

In questo gioco di ruoli, l’uomo, l’umano, si dissolve per lasciare strada alla ragione di stato e di societas, scomparendo abominevolmente e ammonendo perciò la sacralità etica e positiva d’uno stato di diritto e natura. Strabordando, per contrarietà, dalle convenzioni e da “animale” attende in agguato l’occasione per tornaconto personale.

Il suscitare di domande è molteplice, relativo, lasciato trasparire da ogni personaggio, anche il più insignificante e ininfluente a cui l’attenzione della penna del bardo destina rispetto e vita lunga. L’interazione scenica non provoca l’osservazione passiva d’un fenomeno, del fatto, ma il riductus ad unum di tutta l’indagine, il distillato che ne porta i gusti. Lasciato trasparire senza giudizio, lasciando lo sguardo terzo, non indiziato. La memoria di uomo che osserva l’uomo. Il riconoscersi, in questo caso, come poco artefici d’un destino determinato dalla provvidenza. Una consapevolezza scaturita dallo specchiamento in unità di vittime (il meccanismo del tragico greco). Non la visione, ma ciò che genera in chi guarda.

La poetica (e il principio) dell’attore umanizzato in scena, caratterizza l’opera di Stein, maestro indiscusso del secondo novecento e tra gli artisti più influenti delle scene. L’attore a cui viene spiegato il testo, dal regista, nel suo corollario di intenzionalità e topos, e lasciato successivamente sbrigliato, indipendente. L’attore diviene così doppio del suo personaggio, lo impersona divenendone prima spettatore, indossandone umori e tipicità poi, per superarlo infine e giungere ad un livello estremo di personalizzazione. Evidente un lavorio a cui non è immediato arrivare. Disinteressarsi degli sguardi per porre grazia al dramma e al portamento personale in figura di personaggio. Aderire alla maniera del non eccessivo e nemmeno minimale. Un medio non di accomodamento, ma virtuoso, restituire volto alla virtù e immagine al vizio. Soddisfare osservazioni sapienti, competenti, senza annoiare il pubblico “incolto”.

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La consapevolezza del trattare lo spazio scenico e farne luogo di una visione che non sia solo icona. Che si rifletta non esteticamente, non solo, ma per provocatio, per lasciarsi attraversare e fare conseguire un pensiero altro proiettato dal visto. Mettere al centro l’attore/uomo e il processo creativo istantaneo che lo fa divenire personaggio e la parola in azione, il dramma.

E il Riccardo II procede solenne, nelle tre ore di inscenato, minuzioso, fedele all’origine. E una prima assoluta, con alle spalle una mole di lavoro mostruoso, mostra le fragilità, le evidenti stoltezze dello stare ancora in piedi a fatica. Qualche attore giggioneggia, le scene languono di ritmo, l’impianto scenografico essenziale sembra cornice muta ad un articolarsi di scene dal linguaggio stretto (in termini di stile), realista, che, sì, trasporta in platea una verosimiglianza aderentissima, ma deprime la teatralità, il climax, fa mancare contatto. Si osserva e si rimane uomini tra uomini, guardando senza vedere. Illanguiditi da una stasi che alza barriere, che opacizza la bellezza. Perché di bellezza se ne scorge, nel tratto, nel tratteggio di regia, nell’armonia silente degli elementi, nelle prove attoriali singolari, in cui la Crippa sfodera le sue altezze, in una grammatica che nella sua nettezza, lascia intuire la partitura d’arabesco (per raggiungere il semplice è necessario un gran lavoro di cesello). Ma si è lontani da un’opera che può definirsi, per ora, gradevole.

 

 

Riccardo II

di William Shakespeare

traduzione Alessandro Serpieri

riduzione Peter Stein

regia Peter Stein

 produzione: Metastasio – Prato

con Maddalena Crippa, Alessandro Averone, Gianluigi Fogacci

Paolo Graziosi, Andrea Nicolini, Graziano Piazza, Almerica Schiavo

Giovanni Visentin, Marco De Gaudio, Vincenzo Giordano, Luca Iervolino

Giovanni Longhin, Michele Maccaroni, Domenico Macrì, Laurence Mazzoni

scene Ferdinand Woegerbauer

costumi Anna Maria Heinreich

luci Roberto Innocenti

Visto al Teatro Romano di Verona, l’8.7.2017, nell’ambito de L’Estate Veronese