FILIPPA ILARDO | Un’inesauribile dialettica tra il finito e il non-finito: così ebbi modo di definire qualche tempo fa Totò e Vicé [1], testo cardine del grande padre della drammaturgia contemporanea siciliana, Franco Scaldati. Un testo labirintico e modulare che rifiuta ogni fissità di forma e che ora attraversa un ulteriore passaggio e si fa cinema.
Un cinema che si inginocchia al teatro e non poteva essere diversamente: dalla prima messa in scena ad opera di Scaldati stesso (Orestiadi del 1993), il testo è stato portato in giro per il mondo dalla messa in scena del duo Vetrano e Randisi. Ed è della loro materia corporea che Totò e Vicé (angeli\demoni, vivi\morti, bambini\vecchi, anime\corpi, maschi\femmine) si rivestono per subire un’altra metamorfosi e farsi immagine in movimento.
Il film, diretto dai palermitani Umberto De Paola e Marco Battaglia, è stato presentato il 7 luglio in anteprima al Festival del Cinema di Taormina.
Nel gioco dello svelare e del nascondere viene fuori una Palermo lunare e barocca che trova la sua cifra di bellezza nelle macerie, nelle rovine, nei quartieri, nei vicoli, nei muri, nei luoghi che furono di Scaldati e da cui il sarto-drammaturgo-poeta trasse ispirazione (il cimitero, l’Albergheria –il centro S. Saverio dove Scaldati teneva un laboratorio-, i mercati del Capo e Ballarò, il quartiere della Kalsa).
Perfette le luci chiaroscurate e quintessenziate della fotografia di Costanza Arena e Umberto Denaro, entrambi allievi dell’Accademia di Belle Arti di Palermo. Ed è proprio nell’ambito formativo dell’Accademia che nasce il progetto artistico e il miracolo produttivo del film degli insegnanti De Paola e Battaglia: una produzione low budget, quella portata avanti dalla Cooperativa Le Tre Corde, che scommette su un’equipe di giovani allievi, tra cui vanno citati la sceneggiatura della stessa Arena e di RobertoSalvaggio, il suono in presa diretta e le musiche originali di Marco Fazio, mentre i costumi sono di Mela Dell’Erba.
Un impegnativo lavoro di post-produzione che consegna un lavoro prezioso nell’alchimia cromatica e che ha il fascino di intersecare a livello plastico-visivo quella “geologia esistenziale” fatta di contatto sotterraneo tra parola, terra e luoghi che ci ha lasciato il patrimonio immaginativo di questo indimenticabile maestro.
Il “linguaggio sognato”, il lirismo incantato del teatro del sarto trovano così non solo forma, ma anche immagine, laddove il visibile si veste della profondità dell’invisibile.
Nel passaggio da un’atmosfera rarefatta e umbratile ad una visione più materica, più densa, risaltano i corpi dei due attori: ogni singolo movimento, ogni molecola del loro corpo è quella di Totò e Vicé, due barboni realmente esistiti, due saggi-folli che, con i loro discorsi stralunati, sfiorano la percezione metafisica dell’esistenza. Il sorriso beffardo e l’espressione angelicata, lo sguardo obliquo e il candore degli occhi, il passo leggero e il saltello claudicante, la sospensione del reciproco chiamarsi\rispondersi, del reciproco nascondersi\trovarsi, tra l’esserci e il non esserci.
Del film, la cui sceneggiatura non si discosta troppo dalla messa in scena del duo Vetrano e Randisi, si apprezza particolarmente la simmetrica specularità come principio costruttore delle inquadrature. Una sorta di equilibrio chiasmico che è la rappresentazione visiva di quella alterità/identità di cui sono simbolo Totò e Vicé: due facce della stessa medaglia che vivono l’uno nell’altro specchiandosi a vicenda, chiamandosi a vicenda, perdendo a e ritrovando nell’altro i propri confini. Sulla tangente di questo dualismo latente tra ragione e follia, sogno e realtà, visione e percezione, morte e vita, Totò e Vicé si fanno domande, la risposta è sempre uno sdoppiare la domanda stessa, perché la risposta è compresa nella domanda. E viceversa.
Nel loro attraversare una muta e spettrale Palermo, Totò e Vicé \Vetrano e Randisi, personaggi in cerca d’autore, si imbattono nel Teatro: sulla scena aperta la scrivania, gli oggetti personali e la macchina da scrivere (oggetto culto) di Scaldati e la sua straordinaria voce, una voce usata come strumento di una lingua che prima di essere grammatica è suono. Uno sguardo commosso su un’assenza enorme e una presenza fatta di parole e teatro che vivranno per sempre, come per sempre vivranno Totò e Vicé, nel loro perpetuo, infinito, sognante cammino.
Poi continuano il loro viaggio, fino alla fine della notte. Giocando con la morte. Stando al limite.
[1] Un’edizione del testo di Scaldati si trova in formato e-book: F. Scaldati, Totò e Vicé, a cura di Filippa Ilardo, Cue Press, Imola, 2016.
[…] la recensione su PAC MAGAZINE DI ARTE & CULTURE di Filippa Ilardo del 18 Luglio […]