VALENTINA SORTE| In che modo ci relazioniamo ai luoghi, agli spazi geografici/culturali/intimi, ma anche ai corpi che abitiamo e che attraversiamo? Dal 13 al 28 luglio la danza è stata protagonista di questo importante interrogativo. La 33a edizione di Bolzano Danza ha infatti chiuso con un cartellone molto ricco ed eterogeneo il triennio dedicato all’esplorazione delle identità, indagando quest’anno il tema della relazione, del legame e delle radici. Non siamo monadi isolate o anatomie chiuse, siamo al contrario fasci di relazioni. Connessioni. Abbiamo membrane più o meno porose, più o meno permeabili e ci alimentiamo dei nostri perimetri. Siamo microcosmi connettivi. Densità.
Sembra averlo capito molto bene Marcos Morau Dukowshka. Tra le proposte che abbiamo potuto apprezzare durante la nostra breve ma intensa tappa bolzanina, Le Surréalisme au service de la Révolution è stato uno dei lavori più interessanti. L’artista spagnolo, riprendendo nel titolo l’omonima rivista e riallacciandosi esplicitamente all’avanguardia surrealista, scava nel mondo del sogno e dell’inconscio. Il risultato è un allestimento visionario e suggestivo che riesce a coniugare l’equilibrio e la pulizia formale ad atmosfere evocative e surreali, a tratti blasfeme e sovversive. Il coreografo si ispira, piuttosto liberamente, all’estetica onirica e dissacratoria di Luis Buňuel, ricavando dalle sue pellicole delle suggestioni che traduce in scena in una chiave del tutto personale.
La divisione dello spazio scenico in due livelli, tramite una parete di garza, consente la simultaneità di diversi piani di realtà e irrealtà. Connessioni appunto. Dietro la parete tutto è avvolto in un’atmosfera eterea e diafana. Lontana. E’ il mondo del sogno e dell’inconscio. Il proscenio invece è il perimetro dell’immanenza e della nitidezza. I due piani sono solo apparentemente separati: durante tutta la durata dello spettacolo comunicano.
Il sipario si apre su una lunga litania, recitata da una performer in sospensione, a qualche metro da terra. Si tratta di una riscrittura a quattro mani del Vangelo secondo Matteo – firmata da Roberto Fratini e dallo stesso Morau. Le beatitudini evangeliche si rovesciano presto in una lista interminabile di piaghe moderne. Idiosincrasie del mondo contemporaneo scandite a ritmo di anafora. La caduta della ballerina in proscenio al termine del monologo interrompe la verticalità della declamazione ed inizia così un’esplorazione orizzontale e “doppia” della scena. Doppia nel senso di sdoppiata. La coabitazione dei diversi piani di realtà/irrealtà è sottolineata inizialmente da un breve mimo lungo la parete di garza e da un effetto specchio, creato in più punti della coreografia dal corpo di ballo. I gesti e i movimenti si sdoppiano, nascono corrispondenze fra corpi in lontananza. Le suggestioni sono delicate e fugaci.
È un vero piacere per l’occhio immergersi in questa composizione onirica. La scenografia è molto semplice e pulita, dominano i toni del bianco: dalla scelta dei fondali ai costumi in tulle. Il disegno luci, ad opera di Bernat Jansà, non evoca solo atmosfere ma diventa uno strumento indispensabile per la lettura dello spettacolo e delle coreografie. Accompagna i movimenti, preparando a vere e proprie epifanie visive.
Nella prima parte del lavoro i ballerini del Ballet de Lorraine danzano sulle musiche di Benjamin Britten e Akira Rebelais, interrotte periodicamente dal suono delle campane. Increspature su un tessuto danzante. I loro corpi alternano passi da automi a movimenti molto morbidi e ondulati che riproducono i nostri universi sotterranei, irrazionali. La composizione, prevalentemente corale, non è mai noiosa perché l’armonia del movimento in serie è regolarmente spezzata da qualche elemento che anticipa o prolunga la sequenza danzata. La disarmonia nell’armonia.
L’esplorazione del sogno e dell’inconscio non eclissa le altre dimensioni, quella ad esempio dissacrante e blasfema nei confronti della Chiesa e della religione. In scena appare un Cristo-donna messa in croce e deposta. L’iconografia e i riti cristiani vengono evocati per essere rovesciati. Ma è sicuramente nella seconda parte di Le Surréalisme au service de la Révolution che Morau riesce a toccare emotivamente il pubblico tramite l’uso del tamburo come elemento drammaturgico. Il percussionista Gregory Terendij, con in testa il tradizionale cappello dei Nazareni nelle processioni della Settimana santa – il capirote – entra in proscenio suonando il tamburo, strumento molto caro a Buňuel. Le sue percussioni riempono progressivamente lo spazio scenico e la sala tutta, unendosi a quelle del corpo di ballo che, alle sue spalle, lo segue con le grancasse. Si alternano ritmi più o meno accelerati. Impulsi sonori. È un quadro di grande impatto. Il tamburo fa letteralmente “tremare la terra sotto i nostri piedi (…) e diventa un fenomeno portatore di rivoluzione”: è qui che la parete di garza si alza e i due piani di realtà e irrealtà si fondono. Il mondo sotterraneo è pronto a riemergere in superficie. Finalmente palpabile, sempre perturbatore.
Sebbene un po’ troppo asciutto dal punto di vista drammaturgico, lo spettacolo è vibratile e potente, anche quando la danza è assente.
Continua…
Visto a BOLZANO DANZA/TANZ BODEN 2017
Le Surréalisme au service de la Révolution
Direzione CCN Ballet de Lorraine Petter Jacobsson
Coreografia e regia Marcos Morau Dukowshka
Assistenti Lorena Nogal, Ariadna Montfort
Drammaturgia Roberto Fratini
Musica Akira Rebelais, Benjamin Britten
Luci Bernat Jansà
Scene e Costumi La Veronal
Interpreti Jonathan Archambault, Agnès Boulanger, Alexis Bourbeau, Matthieu Chayrigues, Pauline Colemard, Charles Dalerci, Tristan Ihne, Laure Lescoffy, Valérie Ly-Cuong, Sakiko Oishi, Elsa Raymond, Elisa Ribes, Ligia Saldanha, Luc Verbitzky
Percussioni Gregory Terendij
Ripetitori Thomas Caley, Valérie Ferrando