ELENA SCOLARI | L’estate teatrale italiana festeggia un altro maggiorenne: il Festival dei Tacchi diretto da Giancarlo Biffi e organizzato da Cada Die Teatro (Cagliari) compie 18 anni in questa edizione 2017. Un’edizione insolitamente calda, caldissima, lassù in quei paesi dell’Ogliastra sarda dove di solito servono golf pesanti, in questo agosto la calura non abbandonava nemmeno a mezzanotte.
In un panorama più verde del resto dell’isola (ma non dimentico del western mood di Sergio Leone) PAC ha assistito ad alcuni degli spettacoli che hanno costituito gli 8 giorni di programmazione in vari spazi dei comuni di Jerzu e Ulassai: la Stazione dell’Arte dedicata a Maria Lai (nella foto), le Cantine di Cannonau Antichi Poderi, il Portico Josto nel centro storico.
In questa prima parte di resoconto ci occupiamo delle due presenze di maggior spicco, Marco Paolini e Ascanio Celestini – che secondo noi si possono ancora definire narratori – entrambi hanno portato spettacoli/studio: il primo una maratona speciale su Numero primo, nuovo album che viaggia tra i festival dall’estate scorsa (tra cui anche i Tacchi 2016) ma ancora in evoluzione, e il secondo Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo?, seconda puntata della trilogia iniziata con Laika.
Pensiamo abbia senso affiancarli nell’analisi non solo perché visti nello stesso contenitore ma perché è interessante notare quali direzioni prendono, per contenuti e forme, due tra le più seguite star dei palchi italiani, dove i loro lavori divergono e dove, con risultati estremamente personali, possono invece essere considerati parte di uno stesso flusso di riflessioni.
Il primo atto della maratona paoliniana di 3 ore e mezzo è la parte strettamente teatrale, una storia immaginata nel futuro: un uomo che per una serie di circostanze si trova a essere padre (madre incerta e assente) di un bambino umanoide, Numero primo, intelligentissimo, che lo costringe a vedere la vita secondo una prospettiva inaspettata e spiazzante, a destreggiarsi con continui scarti tra la propria umanissima limitatezza e la potenzialità apparentemente infinita di quest’essere unico, che non dorme mai e ama molto le capre stampate in 3D e acquistate su amazon, vulnerabile perché qualcuno (una specie di spionaggio scientifico) vuole scoprire il suo segreto nuovissimo funzionamento.
Il secondo tempo è la contestualizzazione di questa storia. In forma dialogica con gli astanti, una interlocuzione aperta in cui Paolini riflette sulla tecnologia e su quanto essa stia cambiando l’uomo, prima ancora che la società. Lo fa con il suo speciale mix di informazione, ironia, coinvolgimento, dosati in modo che il tempo passi – quasi – senza peso ma soprattutto causando il movimento dei pensieri negli spettatori perché porge al pubblico i suoi stessi dubbi. Paolini ha sempre l’aria di uno che pensa, anche quando è seduto con la pipa fuori dal rifugio dove si cenerà tutti insieme, anche quando gli parli, ha l’aria di pensare, magari ad altro, magari perché in troppi gli si avvicinano. Un pensiero sornione che è poi però lo stesso che condivide con la platea quando è sul palco.
Si parla dello smarrimento paradossale dell’uomo che si sente sempre in ritardo rispetto a ciò che ha inventato, probabilmente “le macchine” non ci domineranno ma certo ci stanno già influenzando e cambiando. Antropologicamente. Su questo è indispensabile riflettere, e il teatro consente di farlo in una collettiva e confortante riunione di umani disorientati.
Il disorientamento di Celestini è invece più legato alla morale e allo squallido scadere dei codici di comportamento dell’uomo. Gli indiani Pueblo del racconto sono i personaggi marginali, come spesso sono gli eroi celestiniani: barboni, ladruncoli, zingari di 8 anni che fumano, facchini negri, bariste belle ma cattive che guadagnano con le slot machines, giocatori di misero azzardo, fruttarole urlatrici che vendono mandarini al mercato romano del Quadraro.
Due tavoli di legno, due abat-jour rosse, due sedie. Un attore, un musicista (Gianluca Casadei).
In un giorno di pioggia improvvisa Celestini/narratore vede due donne alla finestra di fronte, una giovane e una vecchia, la giovane è Violetta, dell’altra non si conosce il nome. Lo spettacolo si snoda per capitoli, annunciati da una voce di bambino, scanditi dal tipico andamento “a parabola”, tra esilaranti ritratti di suore perfide che tengono dio in cantina a mungere una vacca (così quello ha sempre il dito magico occupato e non può fare i miracoli); poetici quadri della cassiera Violetta che si tiene il fantasma di suo padre nel taschino, perché i fantasmi te li porti sempre in tasca; le tragicomiche vicissitudini della barbona Domenica che abita nello sgabbiotto del poliziotto e muore dopo aver bevuto un cappuccino decaffeinato.
Gli uomini e le donne di queste storie sembrano lontane dalla tecnologia ma la confusione umana di queste vite è niente affatto aliena allo sbandare delle azioni provocato un momento storico in cui non è più ben chiaro cosa (e chi) stia in cima alla lista delle priorità.
Celestini è in forma, non sperimenta ma la sua scrittura è sempre di alto livello, c’è un tantino di tenera mistica della povertà ma l’umorismo è irresistibile e l’intelligenza con cui dipinge il suo popolo teatrale è acuta, anche stavolta.
Continua…
Studio per Numero Primo
con Marco Paolini
testi di Gianfranco Bettin e Marco Paolini
produzione Jolefilm
Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo?
con Ascanio Celestini e Gianluca Casadei
suono Andrea Pesce
produzione Fabbrica srl