LAURA NOVELLI | I profondi cambiamenti sociali cui
abbiamo assistito negli ultimi anni e cui assistiamo pressoché quotidianamente sempre più impongono l’esigenza di nuovi assetti antropologici, nuove strategie di costruzione di senso, nuovi modi di immaginare il domani. E’ dunque necessario chiedersi quale strade l’arte e la cultura debbano intraprendere per rafforzare l’umano, per costruire pensiero, per rispondere agli interrogativi etici ed emotivi di questo terzo millennio così fluido e confuso. “Inutile opporsi all’oggi. Bisogna comprendere a fondo la nuova realtà che ci circonda e cercare strategie creative che propongano un’armonia tra individuo e società”. Fabrizio Arcuri non ha dubbi. E nel dirigere la 12° edizione della rassegna Short Theatre – intitolata Lo Stato interiore e in programma dal 7 settembre al Macro di Testaccio e in altri spazi della capitale – disegna una mappa eterogenea di eventi tesi ad interpretare l’oggi, ad assorbirlo in una complessità di linguaggi diversi, in una commistione di generi capace di superare cliché ormai obsoleti per parlare, piuttosto, le parole della contemporaneità (www.shorttheatre.org).
Tanto più che quest’anno la consolidata vetrina (organizzata come sempre da Area06 e sostenuta principalmente dal Mibact e dalla Regione Lazio con il contributo di numerosi partner tra cui il Teatro di Roma) mette insieme ben trentacinque compagnie, quindici italiane e venti straniere, per un totale di centocinquanta artisti presenti e un bouquet di proposte di teatro, musica, danza, performance, incontri, installazioni, workshop davvero corposo, che per la prima volta allarga lo sguardo anche a Paesi extraeuropei rafforzando nel contempo il già solido legame con l’Europa. Tra i nomi in scaletta cito almeno la compagnia svizzera Rimini Protokoll (progetto in collaborazione con Romaeuropa), i portoghesi Ana Borralho & João Galante, l’artista franco-croata Ivana Müller, l’ensemble spagnola El Conde de Torrefiel, l’indiana Mallija Taneja, i nostri Motus, Fanny & Alexander, Sacchi di Sabbia, Deflorian/Tagliarini, ricci/forte, Salvo Lombardo e ovviamente la stessa Accademia degli Artefatti di Arcuri, che in questa intervista racconta a PAC la sua idea di contemporaneo.
Tra qualche giorno si inaugura la dodicesima edizione di Short Theatre: un bel traguardo. Secondo te cosa è cambiato in questi anni e quale è stata la chiave che vi ha permesso una crescita così importante?
All’inizio di questa avventura non ci saremmo mai immaginati una vita così lunga. Ovviamente l’intervento economico del Mibact ha posto delle fondamenta basilari: è stato un atto di fiducia grazie al quale abbiamo potuto cominciare ad immaginare un futuro, a concorrere per i bandi europei, a progettare la manifestazione in modo sempre più organico, più ampio, con legami sempre più forti con la comunità europea e relazioni internazionali importanti, continuando ad impostare il tutto come un fertile terreno di riflessione e scambio. C’è poi da dire che, mentre i teatri in Italia chiudono e molte compagnie giovani rischiano di annegare, abbiamo voluto aprire uno spazio che coprisse questo vuoto. Al centro del nostro interesse vi sono i cambiamenti delle forme espressive, delle convenzioni, e ci sembrava doveroso costruire forme di dialogo tra realtà italiane e gruppi che operano in Europa.
Cosa emerge di interessante da questo confronto artistico e creativo tra Italia e Paesi stranieri?
Credo che vi siano in ugual misura delle discontinuità e delle aderenze. Posso dire che per certi versi noi, già durante l’esperienza di ricerca degli anni ’70, abbiamo scardinato l’idea di testo e molte convezioni tradizionali, mentre ora stiamo tornando alla scrittura, ad una drammaturgia aperta al contemporaneo ma nel complesso più tradizionale. All’estero sta avvenendo un processo opposto; si lavora prevalentemente sulla scrittura scenica, dopo decenni di attenzione alle forme canoniche, ai classici. Ma certo sarebbe miope generalizzare.
Il titolo scelto per questa edizione 2017, Lo Stato interiore, è molto significativo e può essere letto da punti di vista diversi. Come potresti riassumerne il senso?
Sono convinto che dobbiamo tentare di mantenere uno sguardo vigile rispetto ai cambiamenti dei nostri tempi. Ma questo può avvenire solo se lo decidiamo dentro di noi. E’ dal nostro “stato interiore” che dipende la possibilità di leggere il mondo politicamente, socialmente, ed è quanto mai urgente comprendere le sovrapposizioni, gli smottamenti propri della nostra società. Dobbiamo farlo come esseri umani e come artisti perché, conoscendoli, possiamo organizzarci, agire. In fondo, quella di Short è un’esortazione affinché tutti possano entrare meglio in relazione con il futuro. Avere un atteggiamento di rifiuto o di paura non porta a nulla.
Alcuni interessanti titoli della rassegna – penso ad esempio a Trigger of happiness, Guerrilla, in qualche modo anche Nachlass , piece sans personnes – prevedono una partecipazione attiva del pubblico o di non professionisti. Possiamo indicare questa scelta come uno dei fili rossi del festival?
Sì certamente. La programmazione di Short 2017 non si regge su convenzioni tradizionali, soprattutto per quanto riguarda la ricezione del pubblico. In molti casi gli artisti contrattano la complicità degli spettatori per patteggiare una convenzione nuova, in modo che chi assiste partecipi a ciò che sta accadendo. Se mi limito ad osservare qualcosa, entra in gioco il gusto; se invece vi partecipo, vivo un’esperienza concreta, metto in moto un pensiero attivo. Credo fermamente che il teatro oggi possa recriminare un’adesione reale e fruttuosa alla società e possa dunque ancora svolgere la sua nevralgica funzione di rito politico e collettivo, a patto però che ogni evento sia un’esperienza vissuta da vicino. Un’esperienza capace di modificare qualcosa nella mente dei partecipanti con modalità del tutto diverse rispetto a quanto già facciano i Social Network o YouTube.
In quest’ottica partecipativa si inquadrano anche il progetto Margine della scrittrice e coreografa Ivana Müller, previsto alla Biblioteca Vallicelliana, e Cinéma Imaginaire dell’olandese Lotte van den Berg. Come nascono questi format?
Sono entrambi atti di costruzione di uno spettacolo/non spettacolo. In Margine, ispirato alla pratica del XIX secolo denominata “marginalia” che consisteva nel personalizzare un libro prima di regalarlo a un amico o un innamorato, i libri vengono annotati, da un gruppo di annotatori scelti, con pensieri e frasi e rappresentano così un seme che nel tempo cresce, dilaga, si estende verso il futuro. Cinéma Imaginaire è invece una performance site-specific che viene creata dalla percezione di ogni singolo spettatore. La versione italiana del progetto nasce dall’incontro artistico tra il regista olandese e il duo Deflorian/Tagliarini. I partecipanti sono invitati a compiere un percorso per la città e in seguito a montare le immagini girate con gli occhi della loro mente. Sono due operazioni che dilagano nella società e, tornando a quanto dicevo prima, abbattono le convezioni consuete.
Parallelamente a questa ricerca formale che annulla la distanza tra artista e fruitore, quali sono i temi maggiormente affrontati?
Sono tutti temi di forte attualità. In particolare, offriamo molti spunti di riflessione sulla tematica gender, sulla diversità, l’identità, il confine tra il sé intimo e l’essere politico. Il respiro internazionale della vetrina ci permette, inoltre, di capire che le cose funzionano più o meno nello stesso modo ovunque. Ad esempio Be Careful dell’indiana Mallika Taneja fotografa una condizione della donna che non è poi così lontana da quella della donna occidentale. Molto interessante mi sembra anche Trigger of happiness, che pone in essere una domanda per molti versi inquietante: cosa fa la società per coltivare le aspirazioni dei giovani? Per costruire un’idea di domani?
Veniamo a Max Gericke, il lavoro di cui sei regista e che produci come Accademia degli Artefatti (in sinergia con Tra un atto e l’altro). Cosa puoi dirci a riguardo?
E’ un’opera molto interessante che in originale di intitola Jacke wie Hose (Giacca come pantaloni). Karge è stato allievo di Brecht e collaboratore di Heiner Mülller e qui racconta la vicenda di una donna (la interpreta Angela Malfitano, ndr) che, rimasta vedova durante la grande depressione del ‘29, decide di indossare gli abiti del marito e di lavorare facendosi passare per lui. La storia copre un arco cronologico che va dagli anni Trenta agli anni Settanta e questa macrostoria intercetta la microstoria di una figura femminile la cui ambiguità di genere è dettata dal bisogno di lavoro. Il tema gender qui è visto in un’ottica del tutto nuova perché sono le condizioni esterne a costringere Ella a fare questa scelta. Diciamo che il personaggio può essere visto come una Biancaneve al contrario o un Amleto al contrario.
Oltre che la direzione artistica di Short Theatre in queste settimane sei impegnato anche su altri fronti. Puoi accennare qualcosa?
L’11 settembre, proprio nel bel mezzo di Short, debutta all’Argentina Ritratto di una Nazione. L’Italia al lavoro, un progetto di Antonio Calbi e mio che si pone in naturale continuità con il precedente Ritratto di una capitale. Per ora posso dire che stiamo costruendo una narrazione ampia (complici la presenza del dramaturg Roberto Scarpetti, la colonna sonora dei Mokadelic e il set virtuale di Luca Brinchi e Daniele Spanò), concepita come un viaggio all’interno della Penisola declinato dal punto di vista del lavoro. Questa prima tappa del progetto mette insieme nove drammaturgie legate ad altrettante regioni, un prologo e un testo sulle lotte sindacali (gli altri tasselli del puzzle saranno costruiti in seguito, ndr) da cui emerge un’Italia a tante velocità. Un’Italia martoriata da mille contraddizioni. In scena ci saranno solo delle semplici impalcature perché il settore dell’edilizia, con le sue luci, le sue ombre e le sue straordinarie diversità, è quello che meglio rappresenta il tema lavorativo nel nostro Paese. Infine, ad ottobre presenterò una mia regia de La chiave dell’ascensore di Agota Kristof all’interno del festival Quartieri dell’Arte 2017. Si tratta di una favola nera che parla di un tema purtroppo attualissimo come il femminicidio. Ma lo fa in modo crudelmente originale, con quella scrittura astratta e surreale propria della Kristof. Un lavoro cui tengo molto e che ben si inquadra in quel filone favolistico che ho già intrapreso affrontando le riscritture moderne di Cenerentola e Pinocchio firmate di Joël Pommerat.
SHORT THEATRE 12
Lo Stato Interiore
7 – 17 settembre 2017
Roma
INFO
Macro Testaccio, La Pelanda e Factory, Piazza Orazio Giustiniani 4
Teatro India, Lungotevere Vittorio Gassman, 1
Biblioteca Vallicelliana, Piazza della Chiesa Nuova, 18
Facebook: shorttheatre // Instagram: shortheatre // Twitter: SHORTHEATRE
Tel. 06 44 70 28 23