EMILIO NIGRO | La parola per svelare l’ignoto. Il non manifesto, il nascosto, l’intimo. La parola per dare corpo al pensiero. Dare corpo e voce. E suono. Materia. La parola del teatro, a far scene per far finta di vivere, fingere la vita per dirne in verità. Incontri. Rituali.
A Scilla è accaduto. Come in ogni altro posto in cui una comunità interagisce grazie al fatto teatrale. Ovunque ci sia il teatro fuori dalle pose e dalle convenzioni. Fuori dalle gerarchie e dagli atteggiamenti parassitari, fuori dalle fuffe, dai giochi di mano, dagli intellettualismi sterili, dalla mentalità del branco, del farsi fuori a vicenda.
Accade se l’uomo figura ad un altro il proprio destino. Donandosi, come spezzasse il pane.
A Scilla è accaduto. Nel più profondo della penisola. Dove il mare entra nelle case e se ne sente la presenza anche dove non arriva. Se ne sente l’odore. Antico. Di tempi leggendari. Di naviganti verso Itaca e divinità (si dice da queste parti sia dimorata Medusa). Che vedi un’altra terra dall’altra parte del mare e da questa non vorresti mai uscirne. Stretto in una lingua stretta. Davanti al mare e dietro, i monti. Stretto e in respiro.
Il finestrone della sala convegni del Castello dei Ruffo – location, non l’unica, dello ScillaFest – dà su un pezzo della Salerno-Reggio. Uno troncone sospeso sul vuoto di dirupi montani, concluso di recente dopo interminabili lavori di ammodernamento (quasi vent’anni). Simbolo d’una Calabria zoppa. Una regione etichettata, additata. Molto di più per faciloneria che per realtà. Molto più per convenienza che per darne informazione. Per ignoranza, la madre di ogni pregiudizio. La Calabria è zoppa per davvero, ma si amputa per sentito dire. Di tutta la bellezza, se ne sa poco. Di tutto l’ingegno, senza rivali, non se ne vuole sapere (dove la necessità aguzza la mente). Di tanta ricchezza, si preferisce depredarne.
Una terra d’arte. Di tentativi di volo e ali spezzate. Di vita e di malavita. Di padroni e sotto. Di idioti nei posti che contano e intelligenze a mendicare.
Nella sala convegni del Castello dei Ruffo, si sono svolti gli incontri preparatori, e propiziatori, del Festival messo su da Teatro Proskenion (Vincenzo Mercurio, Nino Racco, Mariangela Berazzi, Giovanni Battista Gangemi, Nando Brusco) giunto alla terza edizione. Lì dove Eugenio Barba arò il campo per seminare, e ancora si raccoglie. Eredità di quella esperienza straordinaria che fu l’università Eurasiana. Figli del terzo teatro. D’una pratica, un modo di essere prima d’un fare artistico. Una scelta di vita.
Dibattiti a tema per ampliarsi in discussioni pubbliche. Necessarie, anche se effimere allo stesso modo dell’atto scenico. Irripetibili e forse senza nessuno conseguire. Ma necessari. Ora che parlarsi si fa da lontano, dietro un display. Necessari perché si va fuori tema, senza essere costretti al pensiero unico e all’ascolto passivo. Nessun indirizzo. E la parola svela il pensiero e avvicina all’altro.
Dibattiti a pomeriggio, laboratori al mattino e spettacoli a sera. Per non rimanere da soli. A farsi il teatro nel proprio recinto e invitare qualche critico compiacente e pagato. Fare il teatro in terre di confine. Educare, lasciarsi guardare e farsi toccare. Conoscere, sapere.
Compleanno di Enzo Moscato, andato in scena venerdì primo settembre (terzo giorno di festival, conclusosi domenica 3), ha rappresentato lo spettacolo principe d’una rassegna poliforme. Se ne è scritto per PAC a trent’anni dalla prima messinscena. Uno spettacolo per segni, decifrabile in ascolto senza aspettative d’intellegibilità diretta, come appartiene al teatro d’arte. Un attore, solo, e attorno l’assenza, fantasmi danzanti in oggettivazioni plastiche, iconografiche, di partitura. Una immensa prova attoriale.
Degna di nota la “giullarata” dell’attore sardo Maurizio Giordo (impegnato nel recente Macbettu di Alessandro Serra). Nella tradizionale struttura di un fare teatrale indirizzabile a ogni tipo di spettatore, alla maniera dei teatranti di giro, uso tipicamente italico, e dei cantastorie senza strumento. A tradurre un linguaggio d’uso per figure archetipiche gestuali e pantomimica: far sembrare siano improvvisate e spontanee gestualità e situazioni invece precisamente ripetute. La tecnica raffinata a eluderla, a farla scomparire. Un gioco a rimbalzo di addizioni e meticolosità per farle risultare sottratte, innate. Lazzi, trucchi da illusionista, buffonate e scherni, per fendere in profondità senza allarmare, senza commuovere o creare sussulto. Giocare, invece, a ricreare l’illusione propria della visione teatrale a evaporare il non senso dell’esistere: sconfiggere la morte, ineluttabile. Un attore e lo spazio scenico, voce, corpo, maschera invisibile, artificio e oggetti di scena a farne una stanza di giochi da animare. E una storia da raccontare. Una storia di ultimi, di riscatto e sconfitta, come a dire di non potere uscire diversamente dalle trame del proprio destino adottato per nascita. Ma per questo non crollare, (de)riderne, anzi, e riproporlo per modello irripetibile ma di lungo approdo. Il teatro della semplicità. Della materia povera ma dalla manifattura a regola d’arte. Quella magia del thauma, la meraviglia, per abbandonarsi dall’essere persone, tramutarsi in spettatori e ancora divenire fanciullo (che a volere scomodare Nietzsche, è la terza e sintetica fase del concetto di superuomo: l’uomo sapiente, libero e ludico e perciò percettivo. Le altre due fasi sono del cammello e del leone.)
Il teatro privo di sovrastrutture. Che non è “facile”, ma leggero. Di quella leggerezza che fa levitare gli animi.
Visioni dallo ScillaFest, festival di teatro a Scilla (RC) dal 30 agosto al 3 settembre.