LAURA BEVIONE | Nel 1990 Jerzy Grotowsky fondò a Pontedera un Workcenter e qui, fino alla sua morte avvenuta nove anni dopo, si dedicò a ciò che lui stesso definiva «arte come veicolo». Da allora il centro, ribattezzato Workcenter of Jerzy Grotowsky and Thomas Richards, ha proseguito le proprie attività, accogliendo giovani da ogni parte del mondo – compresa la Polonia, dove l’eredità di Grotowsky è vissuta in modo più problematico e critico – organizzando laboratori e viaggiando con lavori diversi in svariate tournée.
Due di questi, Open Choir/Incontro cantato e Hidden Sayings/Le parole nascoste, entrambi diretti da Mario Biagini e agiti da alcuni performer dell’Open Program – così si chiama la compagnia emanazione del Workcenter –, sono stati proposti quale prologo della XIII edizione di Torino Spiritualità, offrendo così la possibilità di riflettere su quanto ancora sopravviva dell’originaria pratica – intesa come combinazione di azione e pensiero – ideata e sperimentata dal regista polacco.

L’Open Choir vorrebbe essere una sorta di liberatorio rito collettivo: i performer intonano a cappella canti della diaspora africana e accennano semplici passi di danza, lasciando che gli spettatori scelgano o meno di essere coinvolti. Non ci sono forzature né rigidità eppure non si avverte quel coinvolgente senso di libertà e di catarsi collettiva/comunitaria cui il rito teatrale dovrebbe naturalmente condurre. Come si sa, Grotowski attribuiva imprescindibile importanza alla relazione fra attore e spettatore, chiedendo al primo di compiere un training tale da raggiungere quel totale controllo del corpo e della voce che il rapporto viscerale con il secondo avrebbe saputo riempire di senso.
Ecco, non soltanto i performer ci appaiono lontani da quel rigido controllo delle proprie facoltà fisiche cui miravano i – massacranti certo – esercizi ideati dal maestro polacco, ma non ci sembrano nemmeno realmente interessati a vivere un’esperienza con il pubblico. Ogni singolo performer canta e si muove concentrato su se stesso: il volto ognora sorridente in verità nega un sincero movimento di accoglienza nei confronti di quegli spettatori che scelgono di affiancarli.
Paradigmatico l’estemporaneo e prolungato monologo di una dei membri dell’Open Program, evidentemente dettato da autoreferenziale protagonismo, come testimonia il forzato intervento di una compagna, che intona decisa un nuovo canto per interromperla…  La sensazione è di trovarsi di fronte a singole monadi, concentrate su stesse e indifferenti l’una all’altra: il rito collettivo si tramuta così nel rito individualista dell’evasione da se stessi, nella pratica vagamente esotica che consente di dimenticare per qualche momento la disperazione della quotidianità…

OPEN-CHOIR-Workcenter

Analogamente distante dall’idea di teatro di Grotowski ci è parso Hidden Sayings, creato a partire dalle canzoni degli schiavi di colore degli Stati Uniti e da testi della cristianità arcaica.
In abiti bianchi, gli otto performer cantano ed eseguono coreografie elementari – braccia spesso levate al cielo, i bordi delle lunghe gonne sollevati, ecc. – celebrando una sorta di rituale laico ma, di nuovo, escludendo il pubblico da quella sorta di sacra rappresentazione che, dunque, né commuove – nel significato originario di muovere con – né stimola alla riflessione.
Lo spettatore non viene “sfidato” ad analizzare ed eventualmente modificare il proprio pensiero – come voleva Grotowski – bensì viene graziosamente – il sorriso è costante – ignorato, tanto che gli viene finanche negato, almeno inizialmente, quel momento di liberatoria catarsi che è l’applauso finale.
L’arte diventa così veicolo solamente dell’individualità dell’attore: quell’autoreferenzialità contro cui il maestro polacco sempre lottò…

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