ELENA SCOLARI | Belgio-Svizzera-Irlanda. Non un torneo di qualificazione calcistica, piuttosto un volo internazionale su ciò che di teatrale si può concepire e realizzare all’estero, in terre europee meno ingessate dell’Italia. Il che ci fa anche un po’ invidia. I lavori di cui parleremo dimostrano, seppur in modi nettamente differenti, una libertà creativa non “compressa” e che non soggiace a pruderie né a opportunismi timorosi della morale.
Abbiamo assistito a uno degli “eventi” teatrali di inizio stagione a Milano: la produzione svizzero-belga Five Easy Pieces di Milo Rau al Teatro dell’Arte in Triennale (direzione artistica Umberto Angelini, in collaborazione con Zona K) e un’incursione modenese al Vie Festival organizzato da ERT Emilia Romagna Teatro ci ha permesso di vedere Čecov first play dell’irlandese Dead Centre per la regia di Ben Kidd e Bush Moukarzel

Partiamo dalle vicinanze: cos’hanno in comune i due spettacoli? La riflessione su cosa significhi recitare, essere attori, stare su un palco, fingere, essere diretti e agire secondo un mandato esterno.
Sono pensieri su cui da molto si interrogano i teatranti del mondo, ma in questi due casi entrambi i lavori lo fanno in fogge piuttosto originali e non temiamo di dire, ardite.

Le coordinate: lo svizzero Milo Rau (direttore del teatro di Gent) mette in scena la storia dell’assassino Marc Dutroux, elettricista belga che dal 1985 al 1996 ha sequestrato e abusato di sei ragazze dagli 8 ai 19 anni. Solo due di loro sono sopravvissute.
In scena, a raccontare i misfatti in cinque – per niente facili – pezzi, ci sono sei bambini dai 9 ai 13 anni.
Si inizia con i provini, durante i quali il regista, adulto, pone domande ai ragazzi sulle loro vite ma anche sulla loro volontà di diventare attori. E ottiene risposte intelligenti:
– “Che cosa pensi sia più difficile per un attore?”
– “Recitare quello che è più lontano da sé”.
– “E quindi quale ruolo vorresti interpretare?”
– “Un vecchio malato”.
Nel primo quadro il bambino in questione sarà il padre di Dutroux, 85enne, che nella sua modesta stanza si interroga, poco prima di morire e tormentato dalla tosse, se l’aver poco coccolato il piccolo Marc possa avere a che fare con le tragiche azioni del figlio.
Ogni scena è montata a vista, come un set cinematografico, il regista riprende con la telecamera e noi vediamo sia la scena stessa sia la ripresa video col primo piano degli attori proiettata su uno schermo. Gli altri “pieces” sono l’agente di polizia nel suo ufficio, una delle bambine rapite nella cantina di prigionia, i genitori di una delle piccole, i familiari al funerale di due delle vittime.
Il gruppo irlandese Dead Centre sceglie invece il primo testo di Anton ČecovPlatonov (del 1880 ma pubblicato postumo). Il dramma si svolge nella campagna russa, nella tenuta della vedova Anna Petrovna, in difficoltà a mantenere economicamente la proprietà. Platonov si fa lungamente attendere prima di comparire al cospetto di una variegata compagnia ospite della villa. Il personaggio è un maestro elementare, assai stimato come uomo brillante ed eccentrico, del quale sono innamorate sia la Petrovna sia una passionale ex compagna di università, Sofja, ma probabilmente non la moglie.

La particolarità dello spettacolo è però che gli spettatori lo vedono con le cuffie indosso, tramite le quali sentono gli attori al lavoro ma anche i commenti e i dubbi del regista che sta assistendo alle prove del suo Platonov, non convinto della riuscita. Moukarzel ci spiega in un prologo in proscenio che se già sentiamo una voce nella nostra testa ora ne sentiremo due (spirito irlandese…).
Non possiamo trascurare il fatto che Five Easy Pieces sia recitato in fiammingo (sopratitolato in italiano e in inglese) e Čecov first play in inglese irlandese (sopratitolato in italiano), ciò per puntualizzare che si creano anche alcuni filtri linguistici nella visione, oltre a quelli di senso.

Osiamo un parallelo tra i due spettacoli perché entrambi riflettono sulla consapevolezza della finzione, ma il primo è un esperimento serissimo su un argomento terribilmente spinoso – per di più reale –  messo in scena da bambini niente affatto infantili, il secondo è invece un saggio prevalentemente giocoso, con personaggi immaturi e attori dalle vite scombinate, basato su un testo teatrale classico.
Rau realizza uno spettacolo nitido, pulitissimo, tagliato col bisturi. Moukarzel e Kidd inscenano invece la confusione, l’incertezza, il fallimento di vite di carta e di vite vere (in Čecov è la disillusa Sofja a uccidere Platonov, qui è il regista che finisce per ammazzarsi in una roulette russa che risparmia tutti gli attori tranne lui).

Il corto circuito che Five Easy Pieces produce è però molto più forte: vediamo bambini che vogliono fare gli attori (e sembrano tutti molto promettenti) mettere in scena una storia orrenda che ha visto loro come vittime, proprio in quanto bambini. Ma in virtù della loro “piccolezza” ancora non sanno come rendere le emozioni con l’interpretazione, le loro facce sono belle, paffute, lisce, prive dei segni che l’esperienza lascia col tempo quindi il loro lavoro è quanto di più puro si possa immaginare. Si crea un effetto di ribaltamento copernicano, di più: un triplo salto di senso: un fatto accaduto, la sua rappresentazione, la dichiarazione palese della simulazione. Roba da acrobati filosofici. Una goduria. Schopenhaueriana.
A tutto ciò si aggiunge la metafora dell’assoggettamento: il criminale soggiogava le sue vittime e il regista comanda e fa muovere i bambini/attori secondo i suoi ordini. Quanta sottomissione c’è negli interpreti? Quanto desiderio di mettersi in mostra e quanto appagamento nell’obbedire?

Gli irlandesi di Platonov non si pongono questioni tanto diverse ma il risultato di Čecov first play è decisamente più abbozzato e più in cerca di consenso facile. Nella prima metà dello spettacolo gli interventi in cuffia del regista sono fastidiosi perché troppi e soprattutto perché animati da spiritosaggini da pub che vogliono guadagnarsi la benevolenza del pubblico abbassando il tiro.
Nel prologo viene detto dal regista che, avendo visto altre versioni di Platonov, si è reso conto che la platea non aveva davvero capito il dramma, quindi ha pensato bene di fare da didascalia umana per aiutarci. Ovviamente non siamo d’accordo sulle spieghe perché è fin banale dire che uno spettacolo riuscito è in grado di far capire ciò che deve, ma mettiamo pure che questa sia una presa in giro proprio dell’atteggiamento professorale che a volte si vede in teatro nei classici: così si fa però perdere la bussola una volta per tutte. Čecov first play è uno di quegli spettacoli dove non si capisce fino a che punto si dileggino alcuni cliché e quanto invece ci si stia proprio cascando a piè pari. Ed è un tipo di contorsione che non troviamo attraente. Nè risolta. Le scenografie vengono parzialmente distrutte (da un martello pneumatico e da una grande palla proiettile), anche qui a segnare qualcosa che sarebbe già ben chiaro senza azioni così dimostrative.
Il risultato è un affastellamento di simboli che non è per niente cecoviano: i tempi lunghi e vuoti in cui i personaggi del drammaturgo russo navigano sospesi senza obiettivi vanno qui a farsi benedire in un’affannata rincorsa.
Il passo grave e lucido di Rau incastra invece i livelli di significato in un sistema complesso e preciso.

In questi due spettacoli stranieri, resta comunque da sottolineare la sensazione di una possibilità di sperimentazione che in Italia ci pare meno frequente, le nostre compagnie meno tradizionali hanno infatti, in generale, successo all’estero. Al di là dell’apprezzamento per il singolo artista è salutare ricordare che l’arte, e quindi anche il teatro, devono poter osare.

Five Easy Pieces
ideazione, testo e regia: Milo Rau
testo e performance: Aimone De Zordo, Fons Dumont, Arno John Keys, Blanche Ghyssaert, Lucia Redondo, Pepijn Siddiki, Hendrik Van Doorn, Eva Luna Van Hijfte
performance film: Sara De Bosschere, Pieter-Jan De Wyngaert, Johan Leysen, Peter Seynaeve, Jan Steen, Ans Van den Eede, Hendrik Van Doorn, Annabelle Van Nieuwenhuyse
drammaturgia: Stefan Bläske
assistente alla regia e performance
coach: Peter Seynaeve
ricerche: Mirjam Knapp e Dries Douibi
scene e costumi: Anton Lukas
video e sound design: Sam Verhaert
produzione: CAMPO & IIPM

Čecov first play
testo Anton Cechov, Ben Kidd e Bush Moukarzel
regia Ben Kidd e Bush Moukarzel
con Dylan Tighe, Ray Scannell, Tara Egan-Langley, Breffni Holahan, Clara Simpson, Liam Carney
scenografia Andrew Clancy
effetti e scenografia Grace O’Hara
costumi Saileóg O’Halloran
luci Stephen Dodd
suoni Jimmy Eadie e Kevin Gleeson
coreografia Liv O’Donoghue
produzione Dead Centre, con l’aiuto di Battersea Arts Centre