FRANCO ACQUAVIVA | Cos’è il teatro sociale? E il teatro sociale d’arte? Un’amica attrice alla presentazione di un suo lavoro con un gruppo di ragazzi disabili disse pubblicamente: “lo chiamano teatro sociale, ma io non capisco, perché, esiste anche un teatro asociale?”. Il teatro, per chi lo vive come strumento di lavoro nelle situazioni di disagio o trapeutici è infatti necessariamente sociale, non può che farsi tale, non può nascondersi dietro i muri o i muretti dell’estetica, deve uscire allo scoperto come tecnica dell’essere umano su di sé attivata, certo, questo sì, da una guida in grado di stare in equilibrio tra istanze di auto-espressione delle persone e consapevolezza estetica; tra urgenza dei vissuti e dominio delle tecniche e dei linguaggi. Sulla ricezione, da parte della critica, di quel teatro sociale che si è dato, nel tempo, prospettive d’arte, (teatro sociale d’arte, appunto) è uscito di recente un libro di Andrea Porcheddu “Che c’è da guardare?” Cuepress, Bologna, 2017, collana “Il contemporaneo.
Il “teatro sociale” ha una storia lunga – anche nel nome, se si pensa che il suo inquadramento teorico è passato per varie gradazioni terminologiche, delle quali quella più nota “teatri di interazione sociale” la si deve al grande studioso Claudio Meldolesi. Tuttavia, dice Porcheddu, è una definizione già superata perché l’odierno teatro sociale d’arte “è andato, sta andando, molto oltre l’interazione”.
Si tratta dello sviluppo di un modo di lavorare che, nato in situazioni di confronto con il disagio e le disabilità, ha integrato via via alla prospettiva del servizio, della funzione terapeutica, una prospettiva d’arte. Siamo sempre di fronte in fondo a un teatro di regia, dove il regista però “oltre alla naturale vocazione artistica deve prendersi carico della prospettiva sociale e politica del proprio agire in un teatro che incide profondamente dal e nel contesto” e dove l’attore si configura come un’artista “che ha sapienze molteplici, che si rende disponibile a incontri non garantiti con neo-colleghi, quali sono gli attori non professionisti”.
Se – riprendendo in estrema sintesi il ragionamento di Porcheddu – nel teatro sociale inteso come terapia la critica è assente perché lì l’attenzione non si appunta sul risultato ma sul processo, negli esiti d’arte del teatro sociale ecco che la presenza del prodotto giustificherebbe l’esercizio della critica. Ma in che modo la presenza di una logica del prodotto (seppure altra cosa rispetto a quella commerciale) si coniugherebbe con la necessità, da parte degli artisti, di operare con la dovuta attenzione e sensibilità con non-attori in contesti di disagio e/o terapeutici? Qui l’autore individua il nodo della questione laddove scrive, citando De Marinis: “il teatro è, e può essere, tanto più terapeutico (o comunque efficace, benefico) quanto meno si pone come obiettivo esplicito, immediato, la terapia”.
In altri termini “le potenzialità terapeutiche del teatro crescono piuttosto in relazione alla capacità del teatro di porsi al meglio, cioè al più alto livello possibile di rigore e di qualità artistica”. Dunque non si dà contraddizione tra potere terapeutico del teatro (del fare teatro) e qualità artistica dello spettacolo che ne consegue: anzi, è proprio il contrario, è il teatro spiegato alla sua massima potenza di rigore e di qualità, che risulta, alla fine, terapeutico.