LAURA BEVIONE | Un dramma borghese ambientato nella New York contemporanea, in cui le dinamiche di coppia, alla fine, contano più del dibattito ideologico e politico. Il testo – premio Pulitzer 2013 – dello statunitense di origini pakistane Ayad Akhtar inanella dialoghi a tratti incalzanti e stridenti secono il modello del rinnovato conversation play alla Yasmina Reza, con cui condivide altresì l’ambientazione upper-class e il progressivo disvelamento di nature assai poco “incivilite” dietro la formale raffinatezza delle apparenze, senza tuttavia eguagliarne l’educata spietatezza e l’intrinseca ironia. E ciò poiché Akhtar mira, in primo luogo, a scrivere un testo a tesi, ovvero a dimostrare la difficoltà nell’affermare, negli Stati Uniti post 11 settembre, un’identità islamica individuale e, in qualche modo, “neutra”, depurata dalla necessità di difendersi dall’accusa di terrorismo così come da quella di sostanziale brutalità della propria religione.
Relazioni sentimentali complicate e dramma a tesi convivono dunque in un testo che, proprio per la sua duplicità, si auto-indebolisce, non realizzando pienamente nessuna delle sue nature. Fin dall’esordio, infatti, appare assai traballante il matrimonio fra Amir – brillante avvocato di famiglia pakistana ma cresciuto negli Stati Uniti di cui si sente a pieno titolo cittadino – e la wasp Emily, artista innamorata della cultura islamica che esalta nei propri velleitari quadri – e qui agisce in maniera più esplicita che in altri punti il modello rappresentato da Il fondamentalista riluttante, il noto romanzo di Mohsin Hamid – così come risulta altrettanto prevedibile il rabbioso soprassalto identitario del protagonista.
Con arguzia scenica, dunque, il regista austriaco Martin Kušej ignora il naturalismo del testo e tenta di smorzarne la prevedibilità scegliendo una scenografia fortemente simbolica: tre pareti bianche a chiudere una sorta di ring composto da pezzi acuminati di nero carbone, usati anche per tracciare schizzi sulle pareti, e al centro del quale è conficcata una spada. Il carbone solleva polvere che, man mano, sporca i cinque personaggi – le due coppie cui si aggiunge Abe, il giovane nipote di Amir – e ne segna – letteralmente – di lividi le membra. Il nero diviene esplicito correlativo oggettivo delle tenebre delle anime dei personaggi così come del male che corrompe la società mondiale. Lo stesso soffocante quadrato scenico rimanda a una dimensione onirica, all’incubo di un’umanità priva di certezze.
Una scelta registica che trae forza dalla prova dei cinque interpreti, in primo luogo l’impareggiabile Paolo Pierobon, impegnati ad attribuire originale consistenza a personaggi piuttosto stereotipati.
DISGRACED / (DIS-CRIMINI), di Ayad Akhtar. Traduzione di Monica Capuani.
Regia di Martin Kušej. Scene di Annette Murschetz. Costumi di Heide Kastler
Luci di Fabrizio Bono, Daniele Colombatto. Musiche di Michael Gumpinger
Con Paolo Pierobon, Anna Della Rosa, Fausto Russo Alesi, Astrid Meloni, Elia Tapognani
Prod: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, con il sostegno di Fondazione CRT