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RENZO FRANCABANDERA | In una stanza c’è  Fratta donna diva, poi c’è Zebrotto un assistente artistoide che suona uno xilofono per bambini e che ancora mette lui il dito in bocca, e altre strane figure, Conigliotto e Leprotto, e infine c’è ArtyParty, un’incarnazione dell’Arte sotto forma di curatrice gallerista. Lei crea e allestisce il suo universo anche quando stende i panni.
E’ come se Alice nel paese delle meraviglie si fosse fatta un ulteriore viaggio acido e si fosse  fatta inseminare artificialmente dal Cappellaio Matto: ritroviamo Fratta, Leprotto, Zebrotto e i loro compagni di viaggio in un giardino finto di alberi e manti erbosi di plastica, con improbabili vestiti che ondeggiano fra il fluo e il brilluccicante.
Insomma in apparenza è tutto falso, proiezione onirica di un universo che in teoria non vuole avere nulla a che fare con il reale, ma che poi va ad indagare aspetti consustanziali della natura umana, dunque realissimi: il riprodurre, il riprodursi, l’assillo infantile, biologico, insopprimibile del creare, del ricrearsi in altre forme.
Diversi anni fa io stesso, documentando in video la mia personale ricerca sul disegno, riflettevo sul fatto che, per gli uomini in particolare, l’arte quasi sostituisca la biologica impossibilità di generare.
La donna ha questo naturale potere di decidere quando arriva quel tempo, e così il passaggio dalla ragazzina capricciosa che rade voluttuosa le sue gambe col rasoietto Bic alla donna che decide di diventare madre a volte è un fulmine, ma trasforma l’identità profondamente. Una maternità non di rado incurante del soggetto con cui questo obiettivo viene perseguito e portato a termine, e che animalesca arriva a volere, ad ottenere, a farsi forno e vulcano. A schizzare fuori da sé vita umana. Per l’artista è lo stesso. Il vuoto della morte e della mancanza creativa portano lo stesso senso di nulla.

Intanto la donna che si radeva col rasoio (Francesca Frigoli) ha avuto un figlio, l’artistoide (Diego Giannettoni), che suonava lo xilofono e con l’aria da deficiente metteva il dito in bocca continua a farlo ma nel frattempo è forse (ma non si capisce davvero fino in fondo) diventato padre senza che nulla in lui di fatto cambiasse, le strane figure continuano ad essere strane e a fare da coro polifonico sarcastico (Matteo Giacotto, Davide Gorla), un misto satirico demenziale fra Paolo Poli e il Quartetto Cetra, e lei, la femme fatale artista/curatrice gallerista (Chiara Verzola), continua a vivere in un mondo popolato da rapporti allucinati e allucinogeni con tifosi del famola strana (l’arte),  mettendo animaletti di plastica sugli occhiali da sole o coprendo gli alberi con teli di plastica manco fossero Christo e Jean Claude.

 

La non vicenda, al centro di RePRODUCTION, ultima creazione di Phoebe Zeitgeist che ha debuttato la scorsa settimana a Milano al Teatro della Contraddizione (luogo preclaro dell’altro-pensiero nella metropoli milanese, un must per chi arriva in città, ma anche per chi ci vive e vegeta), è una sorta di immaginifico e stranissimo (ma non assurdo) parallelismo sul senso del creare nella vita e nell’arte, dove generazione biologica e mentale sono indagate attraverso percorsi di vita ed esistenze metaforiche. Soggetti (e personaggi) che incarnano caratteri tipizzati, dal fare metrosexual, ambiguamente lascivi, anche quando bigotti.

 

Si crea una strana dimensione fruitiva, tipica del linguaggio della compagnia e della cifra registica di Isgrò, fatta di interruzioni, sospensioni, parola apparentemente priva di senso e che invece arriva con la sua costruzione sardonica a porre lo spettatore davanti alle sue contraddizioni. Qui in particolare c’è un testo raffinatissimo e intelligente (Consonni-Isgrò), dissacrante dei tabernacoli della cultura familistica e riverente della cultura borbonico-mediterranea di cui siamo socialmente intrisi, che cerca di arrivare oltre, all’essenza del sentire il tema della generazione. Le interpretazioni, ugualmente anti naturalistiche e spinte al grottesco, amplificano ancora di più questa sensazione di doppio piano.

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Sicuramente siamo di fronte al miglior esito della compagnia, che raffina i segni dei precedenti spettacoli rinunciando ad alcune estremizzazione semantiche (sonore in particolare) a tutto vantaggio di una struttura scenica capace di permettere allo spettatore di vivere la parola con più densità, e in cui si segnalano, oltre alla seduttiva azione collettiva, le prove d’attore di una grandissima Chiara Verzola e di un Davide Gorla che ricorda i toni e le irriverenze di Paolo Poli.  Le luci da disco balera Anni 70 e le musiche sofisticato-pop completano una creazione che con qualche asciugatura su testo e durata, può davvero diventare materiale ulteriormente deflagrante, per una di quelle visioni che, se non le facesse Phoebe, non le si vedrebbe. E questo, comunque, la dice lunga su una compagnia, che proprio in ragione di questo linguaggio così personale e forte, sta portando avanti un faticoso ma interessantissimo percorso di evoluzione del proprio patrimonio creativo.
Nel gioco di parole, RePRODUCTION merita una vera produzione, ed un’adeguata circuitazione, incorporando un potenziale di ulteriore crescita dei segni che può  portare Phoebe in qualche anno a diventare un fenomeno cult della scena nazionale.
Sarà magari quando ancor più l’estetica raggiungerà un’ulteriore flessibilità “ideologica” sul fare scena, e la modulazione emotiva sulla parola (che per scelta verrebbe da dire “politica”, ora è portata spesso all’estremo, nella maschera sociale dei caratteri e quindi  di fatto negata) diverrà una parte con cui fare conti più ampi, per trasformare entrambi i fattori in armi sceniche ancor più affilate.
Ma senz’altro siamo di fronte a qualcosa di non visto, e in un panorama ultra piatto e triste di sedie e narratori, di spettacoli puliti e dai movimenti scenici fatti con il goniometro e con regole estetiche di sessant’anni fa, questo codice con la maschera vintage ma che guarda al contemporaneo con forza lacerante è sicuramente un inaspettato brutto, sporco e cattivo anatroccolo che sta cambiando già piumaggio e di cui coltivare assolutamente il fattuale e il potenziale: ben venga Phoebe, con le sue contraddizioni, le sue fatiche, i suoi sussulti, il tutto sparato, il fastidio al pubblico e quei preconcetti scenici che diventano però stile e direzione coerente del segno. Possono diventare ancora molto altro e molto di più. Ad avercene di percorsi così.

 

RePRODUCTION
di Phoebe Zeitgeist

regia Giuseppe Isgrò
drammaturgia Francesca Marianna Consonni e Giuseppe Isgrò
da un soggetto di Patrizia Moschella
con Francesca Frigoli, Diego Giannettoni, Matteo Giacotto, Davide Gorla, Chiara Verzola

grafica Alessandro Tonoli
collaborazione alla promozione Giuseppina Borghese
produzione Phoebe Zeitgeist
in collaborazione con Teatro della Contraddizione
Ufficio stampa Le Staffette