FILIPPA ILARDO | Un festival è molto più che un normale cartellone: è un pensiero che si respira, è teatro che si metabolizza, è il formarsi di idee che si sedimentano nell’atto della condivisione, è pensiero critico che si genera, è il formarsi di una comunità che si crea di spettacolo in spettacolo, da un evento all’altro, uno sguardo comune e sfaccettato, un “punto di vista errante”, un coro che dibatte e si accende, si interroga, non solo sui contenuti, ma anche sui linguaggi: Palermo ha il suo Festival ed è un festival che la rappresenta. Non tanto per i contenuti, quanto per la scelta di intersecare linguaggi, forme, idee e prospettive. Il Festival Teatro Bastardo, dal 5 al 22 ottobre, si è svolto prevalentemente al Teatro Biondo, che apre i suoi battenti ad eventi di questo tipo, interpretando la ventata di innovazione di cui ha bisogno un pubblico alla ricerca di nuove forme di teatro e di pensiero.
Interrogare i confini e specchiarsi nel contrario, sondare i margini e ribaltare gli opposti, quello proposto è un teatro che – artaudianamente – dà “nome alle ombre e le guida”, un teatro che non “tollera i limiti”, un teatro dove l’uomo diviene “impavidamente signore di ciò che non esiste e lo fa nascere”[1].
Il teatro conserva una forte “matrice transculturale cioè supera i dati culturali di partenza, produce esperienza, mette in discussione le identità codificate sia individuali che collettive”[2], così scrive De Marinis in questa citazione che Andrea Porcheddu riporta nella sua ultima pubblicazione, “Che C’è da guardare – La critica di fronte al teatro sociale d’arte“, edito da Cue Press.
Il libro che indaga sul rapporto tra critica teatrale e teatro sociale d’arte, cioè quella teatralità che si colloca in particolari contesti sociali (carceri, ospedali, centri di igiene mentale) e che attraversa i territori del disagio con disabili, immigrati, psicopatici, è stato presentato a Palazzo Branciforte alla presenza dell’autore. A fornire testimonianza della loro esperienza creativa e artistica erano presenti sia i Teatrialchemici, con il loro formidabile e decennale lavoro con attori down, che Claudio Collovà e della sua lunga esperienza teatrale con i ragazzi del carcere minorile, Preziosa Salatino con i laboratori nelle carceri e Giuseppe Provinzano che ha acceso il dibattito con la sua recente esperienza teatrale a contatto con un gruppo di immigrati. È proprio nel teatro sociale, nella sua sfida utopica e nel suo valore pedagogico, che si può ravvisare, secondo l’autore, una spinta innovativa tale da rifondare la stessa idea di teatro, da creare “nuove prospettive di arte” e nuove estetiche teatrali. Un teatro osceno e scandaloso, che mostra quello che gli altri nascondono, la malattia, la diversità, il disagio, la sconfitta, ma lo fa all’interno della propria poetica e senza rinunciare alla qualità artistica.
Quella al centro di MDLSX, è un’identità multidimensionale, polifonica, scandalo e purezza di un corpo che si compone e si scompone, si offre, si cerca, si veste e si denuda, soprattutto si cerca. È quello di Silvia Calderoni, attrice feticcio della storica Compagnia dei Motus, che, attraverso un vj/ dj set, una play-list comprendente i brani cult della musica rock, home-video originali dell’attrice da adolescente, sul palco quasi sempre di spalle ad armeggiare su un gande tavolo da regia che sembra l’altare di un rito sacro, la perfomer mette in scena sé stessa. Lo fa con una tessitura drammatica che ha il gusto della citazione, ispirandosi a numerosi elementi, come il romanzo di Jeffrey Eugenides, Middlesex, di cui è protagonista l’ermafrodita Calliope/Cal, ma che si può leggere Cal/DERONI. Identità come perfomance, i corpi -ci suggerisce Judith Butler, citata nello spettacolo- non sono mai solo dati e formati, ma si costituiscono nell’atto del loro darsi e del loro costruirsi. Corpo come campo di possibilità e non come destino biologico: nelle cadenze, nel ritmo, nel furore del corpo, nello scuotimento fisico, nell’ostentazione della carne -carne fatta verbo e verbo fatto carne- arriva alla rappresentazione di sé: la performer si riprende con un telefono e le sue immagini vengono proiettate su uno schermo dai confini rotondi, posto in alto. La scissione dell’individuo che si guarda, spettacolo del sé condannato ad assistersi, a riconoscersi in un corpo, perfettamente androgino, ibrido tra uomo e donna, divino e mostruoso, fa esplodere questo narcisismo del riflesso, dello sdoppiamento, teatralizzando la psiche, sbiadendo i limiti tra l’io e l’altro, il dentro e il fuori. Il corpo ha infiniti ripiegamenti, infinite soglie, infinite metamorfosi, molto di più di quanto un occhio riesca a coglierne: quello della Calderoli sulla scena è dono, ribellione, scatenamento, liberazione, combustione, tutto insieme. Scontornando i confini tra maschile e femminile, – come ribadisce Donna Hardaway nel suo A Cyborg Manifesto – tra natura e cultura, psiche e materia, normalità e anormalità, organico e meccanico, apollineo e dionisiaco, perfezione e mostruosità, si arriva a sovvertire non solo il concetto di genere, ma anche quello di razza, di classe, di nazione.
La prima Nazionale dello spettacolo in lingua tedesca, Living happily ever after della Compagnia Eine Physical Theatre Performance von, presenta uno studio che fa un uso innovativo del linguaggio del corpo e della voce registrata, dove le figure umane dei due danzatori in scena hanno le movenze sintetiche dei cartoni animati e la mielosa fiaba Disney di Biancaneve appare come uno stereotipo troppo sedimentato, quindi superato in una coppia moderna in balia di nuove forme di comunicazione e nuove modalità di convivenza. Un rapporto non troppo impegnativo che non dà spazio ai sentimenti, anzi li denaturalizza, li comprime, li rende demodé, sentirsi liberi è come non sentirsi per nulla, stare in superficie, non credere negli altri. Il montaggio e lo smontaggio dei vari pezzi segue un andamento non lineare, ma è interessante il gioco ironico, beffardo, che varia diversi toni e registri, sulle dinamiche di coppia, sul rapporto uomo-donna, su sentimenti universali come l’amore e la gelosia.
Le fiabe si sa, sono state scritte per tentare di dare un ordine alla realtà naturale, per ardire una comprensione generale dell’universo. Parole troppo grosse per una modernità che ha perso i punti di riferimento, e se non li ha perduto del tutto, ci pensa Licia Lanera, con il suo The black’s tales tour a capovolgere il senso delle fiabe, che appaiono crudeli e piene di terrore.
Uno spettacolo di narrazione, con un uso interessante della vocalità, che presenta un tour tra cinque fiabe tra le più classiche, presentate nella forma non edulcorata, in versione pop-rock-dark, complici le bellissime musiche originali di Tommaso Qzerty Danisi.
Si alterna anche qualche momento intimo, come quello della Sirenetta incapace di farsi ascoltare dal principe, nella sua solitudine prima di morire, si apprezza molto la verve dell’attrice, padrona della scena, la sua voce leggermente roca, meno la concezione generale dello spettacolo il cui impianto mostra qualche debolezza, soprattutto il finale in cui grandi lettere vengono portate sul proscenio a comporre varie parole, l’ultima di questa è eternità.
MDLSX
con Silvia Calderoni
regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
drammaturgia Daniela Nicolò e Silvia Calderoni
suoni Enrico Casagrande
in collaborazione con Paolo Panella e Damiano Bagli
luce e video Alessio Spirli
organizzazione e produzione Elisa Bartolucci e Valentina Zangari
produzione Motus 2015
in collaborazione con La Villette – Résidence d’artistes 2015 Parigi, Create to Connect (EU project)
Bunker/ Mladi levi Festival Lubiana, Santarcangelo 2015 Festival Internazionale del Teatro in Piazza, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Marche Teatro con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia Romagna
LIVING HAPPILY EVER AFTER
ideazione Constantin Hochkeppel, Elisabeth Hofmann,
Laura N. Junghanns
performance di Constantin Hochkeppel,
Elisabeth Hofmann
sound design Laura N. Junghanns
costumi Bartholomäus M. Kleppek
coaching Angie Hiesl
produzione KimchiBrot Connection und studiobuhnekoln
spettacolo in lingua tedesca e inglese con sopratitoli in italiano
THE BLACK’S TALES TOUR
Fibre Parallele
di e con Licia Lanera, e con Qzerty
regia Licia Lanera
sound design Tommaso Qzerty Danisi
luci Martin Palma
scene Giorgio Calabrese
costumi Sara Cantarone
consulenza artistica Roberta Nicolai
foto Luigi Laselva
organizzazione Antonella Dipierro
assistente alla regia Danilo Giuva
produzione Fibre Parallele, coproduzione CO&MA
e con il sostegno di Residenza IDRA e Teatro AKROPOLIS nell’ambito del progetto CURA 2017
e di Contemporanea Festival/Teatro Metastasio
[1] A. Artaud, Il teatro ed il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968
[2] M. De Marinis, Il teatro dell’Altro, La Casa Usher, in A. Porcheddu, Che c’è da guardare? La critica di fronte al teatro sociale d’arte, Cue Press, Imola, 2017