ILENA AMBROSIO | Esiste un luogo entrato nel Guinnes dei Primati come il più silenzioso del mondo; una camera anecoica nella quale qualsiasi tipo di rumore è annullato al punto che, chi si trova ad abitarla, arriva a percepire il proprio interno, il respiro, il battito del cuore, il sangue che scorre nelle vene. Un’esperienza che conduce alle soglie della follia. Ebbene, in un certo senso, per equivalenza e, insieme, contrasto, assistere a Rosmersholm – Il gioco delle confessioni di Luca Micheletti pare voler condurre al medesimo esito.
Una stanza rettangolare illuminata da candele e due lampade a olio, nessun palco; una ventina di sedute su ogni lato per il pubblico e al centro, a strettissimo contatto con i convenuti, la scena. Fiori secchi sul pavimento e due grandi tavoli di legno sui quali giacciono, testa a testa, i protagonisti. Qui, ovviamente, non c’è silenzio ma il suono profondissimo come di un fondo acquatico la cui immagine si delinea ancora più chiara all’accendersi di piccole luci blu lungo il perimetro dello spazio scenico. Eppure la subitanea percezione di qualcosa di oscuro e macabro è solo anticipazione di un’azione che sarà proprio la follia a dirigere; un’azione che, lo capiremo, è tutta interiore o, meglio, volta a portare fuori ciò che è dentro i personaggi dei quali pensieri, ossessioni, inconfessabili colpe riempiranno la scena fino all’asfissia.
La riduzione del compianto Massimo Castri del dramma ibseniano è riproposta da Micheletti – che la interpreta insieme a Federica Fracassi – a partire dalle note di regia di quel lavoro. «Uno scontro tra due astrazioni che non tiene conto del concreto storico», aveva definito la vicenda il regista toscano. Da una parte il pastore protestante Johannes Rosmer, il quale, dopo il suicidio della moglie Beata, fa apostasia di quella ferrea morale religiosa che per generazioni aveva contraddistinto la propria famiglia; dall’altra Rebekka West, sostenitrice delle nuove idee liberali e progressiste; prima, dama di compagnia di Beata e ora costante presenza femminile in casa Rosmer. Il contorno storico e sociale del dramma originario svanisce completamente. La foto di Beata, il quaderno che Rosmer avvinghia con gelosia sono residui di una realtà concreta che non è, qui, di scena. Persino i costumi d’epoca, insieme con uno stile recitativo decisamente affettato, pare vogliano contribuire a impedire qualsiasi tipo di realismo drammaturgico, come a voler distogliere lo spettatore dalla storia di Rosmer e Rebekka per concentrarsi su ciò che le sta dietro, sullo scontro tra due menti, tra due astrazioni, appunto. Un invito reso ancor più esplicito dalla scelta di Micheletti di collocare la vicenda post mortem.
Quei due corpi che vediamo stesi all’inizio della rappresentazione prendono la parola sputando acqua ed esalando il profondo respiro di chi stava per annegare: sono Rosmer e Rebekka dopo il tuffo finale nella gora del mulino. Sono morti che ritornano e rivivono le vicende del dramma in un flusso di parole che nulla concede al razionale continuum temporale. Ma pure affermare che essi mettono in scena delle vicende manca di precisione. Ciò che realmente sembrano fare è astrarre da quelle i retroscena psichici che le hanno generate: i sensi di colpa, le ambizioni, la passione travolgente fino ad allora taciuta. Una sorta di seduta psicanalitica nella quale, a turno, l’uno è uditore dell’altra. A turno, sì, in un gioco delle confessioni – coerente, dunque, l’aggiunta al titolo – che pare una partita di scacchi.
Ciascuno fa una mossa, sia verbale che fisica, alla quale l’altro risponde coinvolgendo in tale meccanismo persino gli oggetti di scena. Rosmer è steso e Rebekka si alza illuminandolo con la propria lampada dopodiché è lui a fare lo stesso mentre lei riprende la posizione supina; lui si siede sotto un riflettore mentre lei è al buio per poi darle il cambio. Si scambiano le giacche e con esse le identità, divenendo lei Rosmer e lui Rebekka. I grossi tavoli di legno vengono spostati per ben tre volte come a riflettere i mutevoli livelli di interazione tra i due, in una climax che conduce alla confessione orribile di Rebekka durante la quale – scacco matto! – starà in piedi su di essi.
Così, tra il parlare compulsivo e quasi psicotico di lui e il progressivo, ma più lucido, disvelamento della natura di lei; tra spostamenti repentini e gesti scattosi; in una continua alternanza di luci e ombre – di grande suggestione il contrasto tra l’illuminazione delle candele e i moderni riflettori – si consuma il dramma di due personaggi dai quali è stata come estrapolata la mente e messa in scena per mostrarne i rimuginii, i rovelli, i meccanismi morbosi e ossessivi. Un vortice paranoico nel quale gli stessi spettatori vengono coinvolti – complice la prossimità alla scena – fino a quel tonfo finale, la chiusura del cerchio che rivede i due giacere senza vita, come al principio.
Ci sono rappresentazioni che, al di là delle felici scelte registiche, della maestria degli attori, dell’equilibrio scenico, possiedono un quid ulteriore, la capacità, cioè, di offrire allo spettatore un’esperienza, ossia, letteralmente, di esperire, insieme con gli interpreti, il percorso drammaturgico che conduce al senso finale, cogliendolo non solo razionalmente ma, quasi, empiricamente. Ed è questo, a parere di chi scrive, ciò che rende particolarissimo e, seppur nella sfera del macabro, affascinate questo lavoro.
ROSMERSHOLM
Il gioco della confessione
monodramma a due voci
di Henrik Ibsen
riduzione Massimo Castri
da un’idea di e con Federica Fracassi e Luca Micheletti
regia Luca Micheletti
produzione Compagnia Teatrale I GUITTI
sotto l’Alto Patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia
e con il sostegno di Innovation Norway
Teatro Argot Studio
29 ottobre 2017