LAURA BEVIONE | Il libanese, trapiantato in Quebec e ora di casa a Parigi, Wajdi Mouawad è uno dei drammaturghi – e registi – più interessanti del panorama internazionale ed è dunque sempre lodevole l’iniziativa di tradurne e metterne in scena i drammi da parte di artisti italiani. Qualche anno fa – e proprio negli stessi mesi – il milanese Teatro i e il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli ne allestirono la pièce forse più nota, Incendi, anche oggetto di una – infelice – trasposizione cinematografica, intitolata La donna che canta.
Oggi un giovane regista, Vincenzo Picone, prodotto dalla Fondazione Teatro Due di Parma, mette in scena Littoral, il primo capitolo di quella trilogia – Le Sang des Promesses – che comprende anche il succitato Incendi e poi Forêts e che è attraversata da tematiche quali la ricerca delle radici e la difficile costruzione della propria identità.
Littoral, Incendies, Forêts, titoli-paradigmi, parole che – scrisse lo stesso Mouawad – «mi hanno insegnato a leggere, a scrivere, a parlare, a contare. Mi avrebbero insegnato a pensare. Mi avrebbero insegnato che all’incrocio fra più strade ne poteva seguire un altro. Che l’infanzia è un coltello conficcato nella gola. Che la vita è fatta per essere donata e, parimenti, per essere, perduta, spezzata, annientata. Che la mia paura più grande è quella di essere costretto, un giorno, a pronunciare le parole di Caino».
Ecco in questo passo è sintetizzato efficacemente il contenuto di Littoral, di cui è protagonista un giovane uomo, Wilfrid, che sceglie di intraprendere un faticoso viaggio nella propria terra natia, dilaniata da una guerra civile, per cercare un luogo in cui seppellire con dignità il padre che, in realtà, non ha mai veramente conosciuto. Nel suo peregrinare è accompagnato da figure esplicitamente immaginarie – il padre, che soltanto da morto riesce a comunicare profondamente con il figlio, e l’affettuoso Cavaliere che ne simboleggia le infantili fughe dalla realtà – e da altre, i dilaniati superstiti del conflitto, la cui natura conserva un’ambigua consistenza. Ci sono Simone, la ragazza “che canta” per invitare i superstiti a resistere e a essere solidali; il figlio che, novello Edipo, ha accidentalmente assassinato il padre; il ragazzo che è stato costretto a tenere fra le mani la testa mozzata del padre e che, a quella vista, ha reagito con una disperatissima risata; la giovane che raccoglie e conserva gli elenchi telefonici di ogni villaggio affinché i nomi degli abitanti non vengano dimenticati. Al termine del viaggio, giunta sul “litorale”, sul bordo del mare, l’eterogenea compagnia può finalmente seppellire il cadavere del padre del protagonista e, insieme a quel corpo, tutti quei pesi – quelle ineludibili eredità – che ne affaticavano il cammino. E quel gesto di lavare a turno il cadavere del padre diventa così collettivo rito di purificazione e di (ri)nascita.
Una scena realizzata con semplicità eppure pregna di significato ed emozione: i movimenti lenti e reiterati, una cerimonia arcaica che celebra l’addio definitivo e privo di rimpianti a un passato che non è il proprio, il superamento di una nemesi che ha concluso il proprio ciclo.
Picone mostra di avere assorbito appieno la drammaturgia di Mouawad, cogliendone l’arcaica contemporaneità, ovvero la capacità di far convivere la tragedia greca – il modello è lampante – con l’epopea cavalleresca – quella eroica così come il suo ironico ribaltamento operato da Cervantes – con suggestioni kafkiane – nella scena iniziale Wilfrid improvvisa una contrita autodifesa di fronte a un invisibile giudice – e con le inquietudini della contemporanea civiltà delle immagini e del consumo – il protagonista vagheggia di essere al centro di un film e poi lussurioso avventore di un Peep Show.
Il regista realizza tutto ciò ricorrendo a un ampio telone bianco che occupa il palcoscenico e che viene variamente spostato, a semplici strutture praticabili di legno che, in alcuni frangenti, attribuiscono al dramma un ritmo ieratico da rappresentazione medievale, a oggetti di scena simbolici – secchi d’acqua, una matita, una benda di tela bianca -, a una recitazione mai sopra le righe che, a tratti, si fa – classicamente – corale. E, ancora, rifuggendo retorica e melodramma, bensì enfatizzando anche gli aspetti più parodistici del dramma – la figura del Cavaliere, ma anche zie e zii di Winfrid.
Picone, fiducioso della potenza della pièce, non calca la mano bensì lascia che, quasi naturalmente, il testo riveli, battuta dopo battuta, le sue verità: le colpe dei padri non necessariamente ricadono sui figli ma è indispensabile che questi ultimi sappiano, con consapevolezza e senza rabbia, spezzare quell’invisibile cordone ombelicale che li imprigiona al destino dei primi. Seppellire per rinascere, pacificarsi con le proprie origini per riuscire a costruirsi un futuro autonomo. Ecco allora quella rituale scena finale che riesce, ancora una volta dopo duemila anni, a offrire un’autentica catarsi.
LITTORAL
di Wajdi Mouawad. Traduzione di Giulia Pizzimenti.
Regia di Vincenzo Picone.
Scene di Mario Fontanini. Luci di Luca Bronzo.
Con Davide Gagliardini, Silvia Lamboglia, Luca Nucera, Gian Marco Pellecchia, Giulia Pizzimenti, Massimiliano Sbarsi, Emanuele Vezzoli.
Prod.: Fondazione Teatro Due, Parma