RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | ES: Roger Bernat è catalano, lo sapevi? Secondo me non è un caso, quindi, che lo spettacolo che Fanny & Alexander hanno costruito in seguito a una residenza/laboratorio con lui parli proprio del concetto di identità. Si legge di lui: “Roger Bernat utilizza il teatro come un laboratorio collettivo nel quale inscrivere tanto le aspirazioni utopiche quanto le fantasie autoritarie che si annidano nella società. Per lui lo spettatore smette di essere testimone privilegiato per trasformarsi in attore perplesso di un dramma nel quale rinuncia a essere unicamente la vittima per accettare il rischio di diventare boia. Entra infine nella fase più completa della sua maturità culturale. Entra nella sua età amletica”.
Con To be or not to be Roger Bernat siamo entrati tutti nella nostra età amletica, non trovi? O forse noi ci eravamo già…
RF: Ho visto diversi lavori di Bernat in Italia, a Dro, a Milano ospite di Zona K, e ho sempre trovato una meccanica molto potente, stringente, che forza chi partecipa alla creazione a esserne parte, costringendolo anche un po’ a svelarsi, a lasciarsi dirigere, se non nel senso dell’attorialità, sicuramente nel senso dello svelamento della propria identità o del lasciarsi condurre a svolgere un ruolo.
L’esatto contrario dell’inettitudine amletica, il maturare propositi che poi non vengono portati a compimento. Amleto penso sia affascinante perché è una condizione dello spirito che in molti, quasi tutti, prima o poi sperimentiamo nel vivere.
ES: L’identità, tanto fragile in questi tempi, in questo lavoro si spezzetta, si disfa e si ricostituisce continuamente. A partire dall’attore, che prende (ruba?) l’identità dei personaggi che interpreta, perdendo la propria. Ma anche Amleto finge di abbandonare la sua per compiere la missione vendicativa ispiratagli dallo spettro del padre. (Amleto anche lui, per altro, altro bisticcio di personalità), si finge pazzo e quindi si sdoppia.
RF: E qui il gioco, che arriva a coinvolgere il pubblico, si converte in una sorta di décollage à-la-Rotella, che al posto dei manifesti da circo viene realizzato deframmentando materiale multimediale, tratto da letture, riletture, composizioni ispirate al più classico dei classici. E’ uno spettacolo in cui si sentono le voci. Che, da dire, sa di fantasmi, ma in fondo è anche un po’ così, a partire da Amleto padre nella versione dei Simpson, doppiata in tempo reale e spalle al filmato (incredibile!) dall’unico interprete in scena, Marco Cavalcoli, che qui come forse mai così nitidamente, sviluppa una potenza da interprete che vibra proprio in questo spezzettato, nell’eterodirezione che tramite gli auricolari gli permette di intonarsi all’istante, passando di lingua in lingua, di doppiaggio in doppiaggio, di interpretazione in interpretazione. La sua interpretazione si sostanzia in ultima analisi nello svuotarsi della persona e riempirsi dei personaggi, che non sono solo Amleto ma tutta la storia del teatro che l’ha interpretato, in un meccanismo che condivide con la logica semantica di Bernat una struttura anti-drammaturgica, che trova senso nel modo profondo in cui il pubblico diventa parte. Non a caso sul finale trova spazio un cammeo da un super classico del risveglio delle coscienze, Insulti al pubblico di Peter Handke.
ES: Io vidi Him, bellissima performance in cui Cavalcoli era vestito come l’Hitler dell’opera/installazione di Maurizio Cattelan, in braghette corte, in ginocchio. Nello spettacolo dava le spalle al pubblico e guardava – con noi – la proiezione del film Il mago di Oz con Judy Garland e lo doppiava in diretta, tutto, da solo, interpretando tutti i personaggi. Anche qui ci sono prove della sua altissima capacità imitativa ma emerge anche quella interpretativa, seppure sul filo dell’esercizio di bravura.
RF: La profondità dello spettacolo è nell’attore che abdica al suo ruolo Novecentesco, di cui rimangono tracce digitali, memorie ectoplasmatiche, da frullare a piacere dallo spettatore più o meno ignaro, per guardare al contemporaneo e ai suoi nuovi giullari rivelatori, i Bertoldo del nuovo millennio. Non a caso il teschio di Yorick dell’Amleto è sostituito un incarnato del viso di Bernat.
Il lavoro nel suo complesso arriva ad una maturità drammaturgica profondissima proprio nella sua negazione paradossale dello statuto del testo scenico, e questa piece-conferenza, il cui pretesto è Bernat che racconta e spiega il suo teatro utilizzando come case study l’Amleto, diventa nella logica di Fanny e Alexander il primo episodio di un polittico destinato a mettere in scena il classico shakespeariano, che però già in questi studi fondanti ci pone davanti ai dubbi. Come d’altronde s’addice al personaggio…
Primo becchino
Questo cranio, signore, era di Yorick, il buffone del re.
Amleto
Questo?
Primo becchino
Sì, questo.
Qui alla fine Yorick resuscita e nei panni di Bernat conclude lo spettacolo guardando il suo cranio da un video collegamento, ovviamente finto.
ES: Sono tante le parti del testo di Shakespeare che ben si prestano alla visione al microscopio che F&A ne fanno, c’è perfino il teatro nel teatro, che qui diventa al cubo perché la scena del veleno nell’orecchio del re è fatta dagli spettatori, eteroguidati da istruzioni in video. In effetti ci sono così tanti corto circuiti che si potrebbe perdere il filo, qua e là. E forse capita, nella velocità estrema dei passaggi di Cavalcoli da un’identità all’altra, fino al coinvolgimento del pubblico, che entra a rappresentare un altro grado, un altro piano di riflessione e di presenza. Ma a ripensarci a freddo, la struttura del lavoro è talmente precisa da dare una prova di attentissima analisi dei ruoli e delle posizioni: del teatro, di Amleto, del pubblico, dell’attore e del “conduttore” in scena. E per conduttore intendo sia l’anfitrione costantemente “fuori di sé” (il conferenziere simil/Bernat parla in più lingue, facendo sentire che nessuna è la sua, non aderisce mai al 100% a nessuna delle identità che assume e a nessuna azioni che compie) sia un elemento che conduce attraverso di sé le diverse tensioni elettrico-cerebrali che compongono l’esperienza.
RF: Per quanto mi riguarda una delle migliori visioni degli ultimi mesi, sia per il concetto scenico sia per la sua resa interpretativa, e una delle creazioni più strutturate e definite di Fanny & Alexander. Giova infatti a questo loro lavoro, come nella logica di Bernat, il guardare al pubblico non come soggetto destinatario di una semantica da corrompere, di una grammatica (non di rado fiabesca, si veda la saga di Oz) da distruggere o rendere lingua incomprensibile, come in alcuni lavori precedenti era successo, ma come soggetto di cui rileggere il ruolo nel nuovo rapporto con la scena, e in questa indagine profonda a piacere, metterlo di fronte alla contraddizione di se stesso. E’ quello che è successo in sala a Teatro i di Milano, dove, dopo un’ora di grandissima recitazione, di lavoro sul senso del teatro, sul rapporto col pubblico, una spettatrice tutt’altro che ignara, in un sussulto di naïveté di pancia, di reazione alla destrutturazione, ha candidamente chiesto al generoso interprete: “Si, ma qui l’arte dov’è?”
Era a suo modo potente questa sua difficoltà a vedere. Tutto questo lavorare sulle voci, di cui si parlava sopra, negava agli occhi dello spettatore l’oggetto dell’indagine. E ormai, legati come siamo al senso dello sguardo, alla logica del video, dell’immagine, tutto quello che è lavoro su altri codici e altri sensi, perde di significato, diventa invisibile. In quella domanda c’era il trionfo dell’operazione stessa, nel suo drammatico rivelarsi utile. Tentativo di risveglio del pubblico compreso.
ES: Sono d’accordo. Se Bernat intende far diventare lo spettatore addirittura “boia”, vuole anche porre il fuoco sul duplice potere del patto che si stringe tra attori e pubblico: dalla propria poltrona si può esercitare il diritto a dissentire, anche esplicitamente, e dalla scena si può dirigere anche il pubblico, come un’orchestra, un organismo che può seguire il direttore e accettare il gioco o ammutinarsi. Interrogativi fondamentali.
In To be or not to be io ho visto, di nuovo, l’insuperabilità di Amleto, un compendio talmente vitale che tutto contiene e il bisogno di tutti gli attori – prima o poi – di confrontarsi con IL dramma, in questo caso leggendolo in modo personalissimo ed evidenziandone l’attualità con acume e sottigliezza. Infatti la puntata amletica dei Simpson (insuperabile anche Matt Groening) non è facile citazionismo ammiccante bensì la prova che il ragionamento di Fanny & Alexander è corretto e che il poliedro teatrale che si forma man mano, nell’ora di spettacolo, è fatto tanto dalla voce di Lawrence Olivier o Kenneth Branagh quanto dalle facce di Homer e Bart.
Bellissimo anche il finale in cui, in uno slancio di pulizia, il rumore delle spade nel duello è l’unico suono e l’unica presenza. E’ una lotta che non si fermerà.
TO BE OR NOT TO BE ROGER BERNAT
una conferenza spettacolo di Fanny & Alexander
produzione E/Fanny & Alexander
ideazione Luigi de Angelis e Chiara Lagani
drammaturgia Chiara Lagani
regia Luigi de Angelis
con Marco Cavalcoli
organizzazione Ilenia Carrone
Parte del testo deriva dal rimaneggiamento di una serie di interviste fatte a Roger Bernat che F&A ringraziano per la generosa collaborazione.