ILENA AMBROSIO | Il corpo sa tutto s’intitola una splendida raccolta di racconti di Banana Yoshimoto: percorsi di dolore e guarigione nei quali il carnale s’intreccia con lo spirituale, portandolo all’esterno, divenendo un tutt’uno con esso.
Corpo che si fa racconto del dentro ma anche del dietro, del passato. Un intreccio drammaturgico cui, nell’ambito di Romaeuropa avevamo già assistito con lo straordinario lavoro di Pilet e Meyrou e che pare riproposi, seppur in modalità estremamente differenti, con Influenza di Floor Robert/inQuanto teatro e Unwanted di Dorothée Munyaneza.
Mondi lontani anni luce quelli dei due lavori eppure accomunati dalla volontà di raccontare storie, ricordi e di farlo attraverso la materialità della scena e del corpo.
Storia personale per Influenza. Come ciò che abbiamo vissuto in passato influenza il nostro presente? Quali sono i segni esterni delle cose che non ci sono più ma che continuiamo a portarci dentro?
Una scena vuota e dei palloncini a elio verdi accolgono l’interprete; abitino rosso da bimbetta, mani sporche di terra e capelli raccolti in una treccia. L’incipit è fortemente lirico: un canto olandese, racconto di un ricordo d’infanzia, di una capanna in una foresta, di solitudine… Come in un pendolo di Newton la memoria fa da input a ciò che accadrà sulla scena. La Robert si muove con grazia, eterea quasi fosse uscita da quel racconto o da un sogno i confini del quale si spostano delimitati dai palloncini verdi, protagonisti insieme all’interprete, della scena.
E, come in un sogno, appaiono personaggi surreali da mondo di Oz: un uomo-cespuglio – il danzatore Francesco Michele Laterza –, una capanna camminante fatta di giornali – l’attore Giacomo Bogani. Entità che fanno da ulteriore stimolo all’azione; il corpo della protagonista reagisce a esse, vi interagisce con la danza, con smorfie da bambina, con movimenti replicati, con gesti d’affetto.
Così, in questo susseguirsi di immagini oniriche, Floor Robert ha costruito un lavoro del quale si percepisce certamente la nostalgia ma che fatica a seguire un sostanziale filo drammaturgico, la cui levità diventa a tratti inconsistenza, risultando, così, inefficace nel suscitare una pregnante e persistente emozione nello spettatore.
Decisamente diverso il lavoro di Dorothée Munyaneza. In una sorta di documentario le voci di donne sopravvissute al genocidio contro i Tutsi in Rwanda testimoniano delle violenze sessuali subite, delle malattie contratte, dei bambini messi al mondo ma, per tutta la vita, quasi odiati poiché insopportabile promemoria di uno straziante passato. Il racconto non è autobiografico eppure la Munyaneza lo porta in scena accogliendolo con il proprio corpo e la propria voce.
In un ampio spazio movimentato da schizofrenici giochi di luce gli elementi si compongono in un tutto stratificato ma compatto del quale la potenza e l’immediatezza espressiva sono i tratti fondamentali. Una forza irruenta, disarmante, violenta quanto quella dei soldati stupratori che hanno devastato, come un campo di battaglia, i corpi delle loro vittime. Quelle storie raccontate dalla voce delle stesse donne, sono prese in carico dalla scena, dal corpo della protagonista i gesti della quale paiono evocare, più che la violenza fisica, lo strazio interiore da essa generato; dalla camaleontica voce di Holland Andrews, capace di modulazioni ed effetti talmente sorprendenti da sembrare artificiali; ancora, dalle composizioni di Alain Mahé creatrici dell’atmosfera tumultuosa nella quale si inserisce quel tutto.
Anche qui vige una struttura frammentaria ma coerente con l’intento drammaturgico di restituire un senso ben preciso: la disgregazione cui la vita di una donna stuprata è per sempre condannata. Quella disgregazione la Munyaneza la racconta con il suo stesso corpo; è con il corpo, con la voce che la condanna facendo arrivare in maniera limpidamente e sconvolgentemente diretta il messaggio allo spettatore.
C’è un elemento che gioca un ruolo fondamentale nell’articolata costruzione di un lavoro artistico ed è l’orizzonte d’attesa con il quale il pubblico si accosta a esso. Il soddisfare o meno quell’orizzonte è certamente metro di valutazione dell’efficacia finale, soprattutto quando ciò che si vuole mettere in scena è l’umano e il suo complesso di dinamiche emozionali. Sembra proprio questo il punto di scarto fondamentale tra il lavoro di Floor Robert e quello della Munyaneza: dove l’uno resta chiuso nell’interpretazione dell’autrice tanto da non rendersi accessibile, l’altro si apre per spiegare, quasi urlare, il proprio senso. Strade percorse con il corpo, con la materialità del gesto eppure conducenti a esiti diversi confermando, a parere di chi scrive, che l’arte che si propone di dire e lasciare impresso il proprio messaggio non può e non deve essere autoreferenziale.
Influenza
Di inQuanto teatro
Ideazione, Coreografia Floor Robert
Con Floor Robert, Giacomo Bogani, Francesco Michele Laterza
Musiche Manuele Atzeni
Tecnica Monica Bosso
Maschera Eva Sgrò
Organizzazione, Comunicazione Julia Lomuto
Romaeuropa Festival 2017
MACRO Testaccio – La Pelanda
3 novembre
Unwanted
Ideazione, Coreografia Dorothée Munyaneza
Con Holland Andrews, Alain Mahé, Dorothée Munyaneza
Consulenza artistica Faustin Linyekula
Ideazione scene Vincent Gadras
Artista della plastica Bruce Clarke
Ideazione luci Christian Dubet
Musica Holland Andrews, Alain Mahé, Dorothée Munyaneza
Ideazione costumi Stéphanie Coudert
Direzione tecnica Marion Piry
Produzione, Amministrazione,
Diffusione Emmanuel Magis/Anahi
Produzione Compagnie Kadidi, Anahi
Romaeuropa Festival 2017
Teatro India
12 novembre