Daphne @ Francesco Pititto

FRANCO ACQUAVIVA | Dimentichiamoci ogni avvicinamento al mito di Dafne per mezzo di tuniche o boccoli o piedi scalzi o declamazioni o narrazioni o canti: in Daphne_You Must Be My Tree di Lenz Fondazione la ninfa che per sfuggire alle brame di Apollo viene trasformata in albero (un alloro) dal padre Peneo, è un volto dapprima ingigantito da tre enormi schermi che chiudono la scena su tre lati e poi è l’incedere svelto di una performer imparruccata bionda con alti stivali, un top che lascia scoperti i capezzoli e un collant indossato sulle quasi del tutto denudate natiche, una valigetta in mano, che a un certo punto viene colta da terra.
Entra con trotto sostenuto e descrive ripetutamente un cerchio, poi si ferma, è in proscenio, inginocchiata, estrae dalla valigetta dei pezzettini di legno e li depone uno a uno meticolosamente accanto a sé, intorno a un’idea di mano, la propria mano: pollice, indice, medio anulare, mignolo, con lentezza; i pezzettini di legno sono già un’allusione alla metamorfosi, ma per ora sembrano un gioco da bambini, la ninfa che porta già con sé le tessere del proprio mosaico vegetale. Un gioco segnato dal destino? Ma è il volto che colpisce.
Daphne (Valentina Barbarini) non smette di guardarci. Sempre il suo sguardo si posa su noi che guardiamo. Siamo noi il dio che la insegue? È da noi che fugge? Ma Daphne ci incatena, se fugge da noi è perché con quello sguardo da animale spaventato che ci pianta addosso attira il nostro inseguimento, e così non si capisce chi è a caccia di chi in questa fuga di riflessi che i tre schermi puntualmente rimandano. Il volto è bianco biacca e quando la folta parrucca color stoppia dorata viene deposta, il cranio rasato della performer sembra amplificare il potere di quegli occhi.
Altre azioni-segni, alcune chiare altre meno (come le arachidi infilate nelle narici), si succedono: i piedi liberati dagli stivali e infilati in un paio di zoccoli ortopedici che vengono poi inglobati nel collant come fossero escrescenze ungulate appena contenute dalla pelle sottile dell’animale-ninfa; immagine sottilmente perturbante e ambivalente, che accosta potere divino di trasformazione e banalità quotidiana; natura femminile selvaggia e segni che rimandano all’industria della bellezza e del “benessere” (collant, parrucca, zoccoli ortopedici); selvatichezza indomata e disponibilità a offrirsi all’occhio voyeristico degli spettatori-dèi.

Foto di Francesco Pititto

La metamorfosi poi è una sagoma-vestito composta di piccoli elementi in legno di varia grandezza già di per se scultura, oggetto: Daphne seduta su una sedia lo distende sul proprio corpo seminudo, ne emerge solo la testa che si offre a leggere inclinazioni di resa, in una danza di remissione.
Prima il corpo della ninfa si era prodotto in una serie di contrazioni che dal torso alle scapole al ventre aveva suscitato la sensazione di un processo trasformativo in corso nella carne viva. Richiamando quella sparizione del corpo che sembra procedere a ogni momento nelle sequenze dei danzatori di Butoh, che si attua attraverso un’inversione di segni nella polarità delle correnti vitali, per cui tutte si trovano a muovere verso l’interno, come a collassare verso un centro buio/luminoso; un centro fisico che si irradia di energia intorno al corpo del performer.
Non è Butoh, certo, ma questa è la parte più fisicamente intensa e interessante della performance: le scapole spinte indietro con una tensione che quasi cancella la linea delle spalle, il ventre spinto in dentro con forza, e le parole lanciate verso un microfono a giraffa altissimo sopra l’attrice, e la fatica di arrivarci, a quel cielo fonico, visibilmente innervata nello sforzo del corpo di tendersi verso l’alto.
Tanti i segni che si connettono tra loro in una visione sottile del mito; una quotidianità di materiali che riesce a trasporsi in segni enigmatici.  Breve la performance (35 minuti), accompagnata da un colonna sonora avvolgente e da proiezioni immersive.
È un linguaggio autonomo questo, totalmente staccato dalla narrazione scenica, semmai è poesia; è la generazione di un magnete di senso che fa confluire in un flusso coerente materiali disparati, visivi, fisici, letterari, scenici, sonori, in un rituale dove la chiave ci sembra essere questo agguato di sguardi della performer, carico di spavento, seduzione, immota forza primordiale dell’esserci, gioco di caccia.

DAPHNE_YOU MUST BE MY TREE
da Le Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone
traduzione, drammaturgia e imagoturgia Francesco Pititto
installazione scenica, regia e costumi  Maria Federica Maestri
musica Andrea Azzali
performer Valentina Barbarini
cura tecnica Alice Scartapacchio
cura del progetto Elena Sorbi
organizzazione Ilaria Stocchi
ufficio stampa Michele Pascarella
produzione Lenz Fondazione
Visto giovedì 2 novembre 2017, DiDstudio, Fabbrica del Vapore, Milano, all’interno del Danae Festival.