LAURA BEVIONE | Ha il ritmo sincopato e impalcabile della musica techno, l’oscurità e il fumo soffocanti di una discoteca affollata, l’odore del sudore e degli umori del corpo umano colto nell’attimo di massima ebbrezza: è il rito orchestrato da Dioniso, dio androgino e sfuggente, ambiguo e schizofrenico come una rockstar. Ed è anche il rito teatrale approntato da Andrea De Rosa che, dopo la felice messinscena di Fedra, testimonia ancora una volta un’indubbia affinità con i testi classici.

La scena – in verità un po’ sacrificata fra gli stucchi dorati del teatro Carignano – è una piattaforma triangolare nera, chiusa all’estremità da un muro suddiviso in celle, per buona parte dello spettacolo invisibile, immerso in un’oscurità attraverso la quale si scorgono a tratti figure umane e dalla quale emergono le corifee. All’esterno della pedana, a segnalare un’orgogliosa indifferenza, la poltrona-trono di Penteo che, con le spalle alla platea, discute con il nonno Cadmo e con Tiresia e poi con lo stesso Dioniso – pantaloni neri e lunghi capelli biondi, l’asta del microfono quale scettro – dell’inaudito scompiglio portato a Tebe dai riti del dio-fanciullo.

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De Rosa intesse così visivamente, e non soltanto concettualmente, un articolato discorso su alterità e doppiezza, rifiuto pregiudiziale di quanto è estraneo alle consuetudini ma anche paura di esplorare il proprio lato più “oscuro”, ossia istintuale o, semplicemente, passionale. Il regista, poi, accentua i tratti umani del dio, facendone davvero una sorta di rockstar, sessualmente ambiguo e infantilmente capriccioso, sprezzante e abile nello smascherare le debolezze umane.

Un Dioniso che mette a nudo il fanciullesco presente in ciascuno dei protagonisti, l’anziano Cadmo così come Tiresia, ma anche lo stesso Penteo – insicuro come uno scolaretto interroga il dio sulla credibilità del proprio travestimento. Il dio-fanciullo, d’altronde, invita gli umani a liberare quanto gli obblighi sociali hanno soffocato: le incertezze del sovrano, la gioia bambinesca dell’anziano, il desiderio delle donne, l’impeto distruttivo della “genitrice” Agave…

Il regista narra il progredire della tragedia con concentrazione e ineluttabilità classiche, assecondando il ritmo ossessivo della musica – composta da G.U.P. Alcaro e Davide Tomat – e, ancora in ossequio alle convenzioni aristoteliche, scansando con programmatico rigore sanguinolenti sipari pulp ovvero espliciti ammiccamenti sessuali e immergendo la vicenda in un contesto atemporale, in un non-tempo e in un non-luogo che è specchio dell’immutata e immutabile natura dell’uomo.

Un disegno registico coerente ben assecondato da tutto il cast,  a partire dal Dioniso felicemente rock di Federica Rossellini, e poi lo sprezzante eppur insicuro Penteo di Lino Musella, i messaggeri-corifei interpretati da Carlotta Viscovo e Matthieu Pastore, l’anziano-fanciullo Cadmo di Riccardo Dondi e tutti gli altri, impegnati nel recitare, ancora e ancora, una vicenda tragica che, purtroppo, non può essere interrotta pronunciando semplicemente la parola “basta!”, come vorrebbe l’esasperata Agave-Cristina Donadio.

 

LE BACCANTI

di Euripide

Adattamento e regia di Andrea De Rosa.

Scene di Simone Mannino. Costumi di Fabio Sonnino.

Luci di Pasquale Mari. Sound design di G.U.P. Alcaro.

Con Marco Cavicchioli, Cristina Donadio, Ruggero Dondi, Lino Musella, Matthieu Pastore, Irene Petris, Federica Rossellini, Emilio Vacca, Carlotta Viscovo, e le allieve della Scuola del Teatro Stabile di Napoli Marialuisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei.

Prod.: Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia.