VINCENZO SARDELLI | Che il teatro napoletano non si riduca a Eduardo e a tutto un manierismo riconducibile a lui è evidente dall’affermarsi, anche solo negli anni Ottanta, di autori come Ruccello, Moscato, Santanelli, per non citare Patroni Griffi.

Poi, una decina d’anni fa, irrompe tra i gruppi giovani Punta Corsara. Essa si collega con spontaneità alla tradizione di una neolingua che coniuga in un mix esplosivo italiano e partenopeo. Non eccede in temi scabrosi o angoscianti. Usa una tecnica solo all’apparenza raffazzonata. La sua poetica è dominata da una sapiente ironia e una leggerezza eccentrica. Pur aperta alle contaminazioni, la compagnia di Scampia resta radicata all’essenza viscerale e variegata dello spirito napoletano.

Anche “Il cielo in una stanza”, spettacolo che ha fatto tappa al Teatro Franco Parenti di Milano, stempera la tragedia nella farsa, mentre tocca nodi scomodi della nostra storia locale e nazionale. Qui lo stile sghembo di Punta Corsara si fa meno straniante.

La canzone che dà il titolo al lavoro, portata al successo da Mina nel 1960, si sfronda delle suggestioni trasfiguranti del suo autore Gino Paoli. In questa tragicommedia introduce il tema della speculazione edilizia, il cosiddetto “sacco di Napoli” del quale fu artefice, negli anni Cinquanta, l’armatore, editore, nonché sindaco e presidente della squadra di calcio Achille Lauro, personaggio tra i più amati e al tempo stesso detestati della storia della città.

“Il cielo in una stanza” stigmatizza l’altra faccia del Boom economico. Siamo sulla scia di “Le mani sulla città”, capolavoro cinematografico di Francesco Rosi. Al centro, una storia d’ordinaria emigrazione. Un uomo, Ceraseno, parte per la Svizzera per far guadagni e ritorna a Napoli senza una mano a causa di un incidente sul lavoro. Con i soldi del magro risarcimento compra una casa in una via dal nome evocativo, Miracolo a Milano, e va ad abitarci con la moglie Carmela. Ma il palazzo, costruito con materiali scadenti e cemento misto a sabbia, crolla. Il miracolo economico deflagra. Carmela rimane vedova. Sulla scena rimane un nugolo di derelitti: Lucia ed Enzuccio, una madre e un figlio in disarmo; Alce Nero, un mezzo indiano che vive secondo natura ma anche assecondando un istinto giustizialista; Alfredo, generoso e garantista nonostante nel crollo abbia perso una figlia. C’è pure il “sotterrato”, rimasto prigioniero al piano di sotto tra le macerie, che comunica solo attraverso un cesso: per chiamarlo si tira lo sciacquone, per metterlo a tacere si abbassa la tavoletta. È un personaggio surreale e grottesco come lo Zi’ Nicola de “Le voci di dentro” di Eduardo. Ogni tanto fa capolino sulla scena anche una “Mano” dentro una teca di vetro, che fa molto Famiglia Addams.

Forse è il caso di rivolgersi a un avvocato per iniziare una battaglia legale e ottenere giustizia. Ma cosa succederà quando verrà fuori che l’avvocato incaricato di difendere i condòmini è proprio il figlio del famigerato costruttore del palazzo?

Il testo di Armando Pirozzi e Emanuele Valenti alterna un piano reale e un piano fantastico, scenicamente espressi da una scena tripartita (di Tiziano Fario) fatta di pareti diroccate, pontili e travi, armadi, botole e ante da cui i personaggi (bravi e splendidamente assortiti, Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Sergio Longobardi, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella, Peppe Papa) entrano e fuoriescono a piacimento. È una sorta di labirinto per topi. Ciò che sta in alto allude all’assoluto come vertigine. Ciò che sta in basso dà un’idea di fermezza e solidità, e invece diviene voragine che tutto inghiotte. Il sottosuolo è il mondo reietto degli invisibili. S’intrecciano i nodi di una comunità misera e bizzarra, preda di compromessi e connivenze, che si arrabatta tra violenza e corruzione. Si avvicendano giustizia e vendetta, intelligenza e forza bruta. I colombi qui non sono bianchi simboli di redenzione, ma piccioni lerci che imbrattano la scena di escrementi.

Il miscuglio di linguaggi e generi parte da De Filippo e arriva a Brecht passando per Zavattini. “Il cielo in una stanza” è uno sguardo crudo su decenni di speculazione edilizia e malversazione. Un sorriso onirico, una smorfia sgraziata, aleggia sulle nefandezze umane.

La maschera dei potenti scompare dal palco. Poveracci sbilenchi si attorcigliano su se stessi. La regia di Emanuele Valenti sembra smarrire volutamente linearità e coesione per meglio rappresentare un’umanità disorientata, disarmonica, mutilata: nonostante tutto, mai arrendevole.

 

IL CIELO IN UNA STANZA

di  Armando Pirozzi e Emanuele Valenti
regia Emanuele Valenti
con Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Sergio Longobardi, Valeria Pollice, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella, Peppe Papa
disegno luci Giuseppe Di Lorenzo
voce Peppe Papa
scene Tiziano Fario
costumi Daniela Salernitano
organizzazione e collaborazione artistica Marina Dammacco
Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini/ 369gradi