ELENA SCOLARI | Eroi da roulotte. La roulette della vita li ha cacciati lì, in un parcheggio ai margini della città. Un posto squallido, zozzo, misero, una discarica più che metaforica.
Gli “scarti” che ci vivono però non hanno perso il sense of humour: Caio (Massimiliano Setti), un ex prete che ha fatto del cinismo il suo credo; Achille (Alessandro Tedeschi), un sordomuto ritardato, razzista e gay innamorato dello speaker di Radio Clandestina; Olga (Beatrice Schiros), una cicciona cui manca un occhio ma soprattutto le manca un figlio.
Tre fratelli smandrappati con spirito salace e battuta prontissima che campano rubacchiando oggetti dalle bare del cimitero accanto (protesi in silicone comprese, si rivendono anche quelle). Il vicino di parcheggio è Mezzaluna (Pier Luigi Pasino), un musulmano che fa sparire rifiuti tossici ma vorrebbe un lavoro onesto, si aggiunge poi Aldo (Alessandro Federico) un pubblicitario in disgrazia, cacciato dalla moglie perché tradita con una minorenne. Della misteriosa Nina (Angela Ciaburri) parleremo più avanti, personaggio chiave che spariglia le logore carte della comitiva.
Questa è la promettente combriccola di Cous cous klan, ultimo lavoro di Carrozzeria Orfeo, che ha debuttato al Teatro Elfo Puccini con tre settimane di programmazione dicembrina. Lo spettacolo è il terzo capitolo di una “saga degli sgangherati”, cominciata con l’esplosivo e insuperato Thanks for vaselina, seguìto da Animali da bar.
Sono tanti i pregi dei carrozzieri: Gabriele Di Luca è un drammaturgo brillante, la sua scrittura è veloce, tagliente, spiritosissima, scorretta; la regia triplice è buona; gli attori sono tutti bravi, personali per stile ma armonici per senso del ritmo (Setti ha forse il personaggio più sfaccettato e ci è parso particolarmente in parte); Cous cous klan ha anche la bella scenografia di Maria Spazzi, che conferma il suo talento nel creare atmosfere che costruiscono un significato ambientale per lo spettacolo.
Quindi tutto bene? Non del tutto, no. Dobbiamo però fare un distinguo tra la valutazione di questo singolo lavoro e la riflessione sul percorso della compagnia.
Chi ha conosciuto Carrozzeria Orfeo con Cous cous klan li ha amati e tornerà a vederli, e ha vissuto un’esperienza teatrale di qualità complessiva non comune. Il pubblico, numerosissimo, giovane, presente a questa lunga tenitura era senz’altro in parte affezionato (e un po’ acritico) e in parte composto da nuovi elementi acquisiti col passaparola, non è quindi né trascurabile né marginale che il gruppo riesca a portare tanti spettatori, tanti trentenni, a teatro. Chapeau.
Cous cous clan, guardato in sè, è quindi uno spettacolo da promuovere, per tutte le ragioni elencate e per un’ultima ragione importante: è molto divertente.
Tuttavia – a chi lo analizzi criticamente – appaiono alcuni difetti intrinseci: una certa verbosità soprattutto nella seconda parte, l’eterno complesso dell’horror vacui (peccato di tanti drammaturghi pur capaci) che si traduce in un sovraccarico di argomenti, un contesto generale un po’ pretestuoso.
Tutte e tre queste fragilità sono il rovescio di medaglie per metà virtuose: la facilità di scrittura porta a dire più di quanto sarebbe necessario; l’interesse per i fatti della vita e del mondo conduce a imbottire il testo di troppi temi, che qui vanno dalla povertà al conflitto di classe, dalla moralità al terrorismo (accennato), dagli scandali in Vaticano al desiderio di maternità, dall’omosessualità alla “diversa abilità”, dalle violenze sessuali alla disillusione umana, dall’amore alla speranza alla solidarietà tra ultimi; l’alveo in cui lo spettacolo si muove è l’avvenuta privatizzazione dell’acqua, scenario apocalittico con divieto d’accesso alle fonti idriche, guardie armate del governo a presidiarle, contrabbando. Abbiamo usato la parola pretestuoso per questo quadro perché – pur essendo la ragione per cui i personaggi si trovano come si trovano, quindi il motivo della loro condizione esistenziale – rimane del tutto secondario. È uno sfondo inessenziale, l’acqua potrebbe essere il pane o il denaro. E di fatto è così: manca ovviamente anche il denaro (col quale ci si potrebbe procurare l’acqua), il classico denaro è il vero nodo della differenza tra chi sta dentro la recinzione del benessere e chi ne è escluso. Senza scomodare altro.
Ed eccoci all’arrivo di Nina, il personaggio misterioso che arriva a scompigliare l’equilibrio della banda, precario come le loro roulotte. La ragazza compare di notte, nuda, ruba i vestiti al pubblicitario e quando viene ritrovata al mattino pare a tutti un po’ matta, sente le voci, blatera di traffici di reliquie di santi, predice un po’ di futuro… È qui che dobbiamo innestare la riflessione sul percorso artistico della compagnia, abbiate pazienza.
Nina è la chiave con cui Carrozzeria prova a fare il salto che mancò in Animali da bar dopo Thanks for vaselina. Sì perché lo schema è in realtà sempre lo stesso: un manipolo di sfigati, ognuno con la sua “deformità”, un’azione assurda, cattiveria spassosa e abbondante, sottofondo di grande umanità. Se nel primo c’era un’obesa tonta che trasportava analmente ovuli di maria in Messico, nel secondo abbiamo una barista ucraina che affitta l’utero per soldi, in Cous cous la banda combina un piano per rubare il prepuzio di Gesù, idea di Nina. Va anche detto che la brava Beatrice Schiros comincia a essere un po’ prigioniera del carattere costante che hanno sempre i suoi personaggi: è cinicamente sboccata, divertente perché disincantata, disonesta e sentimentale, perché è una madre, si fa madre per qualcun altro, vuole diventarlo dopo aver abortito da giovane.
Forse per affrancarsi da questo formato, Di Luca introduce un elemento che aggiunga un lato, una dimensione, che sia un po’ corpo estraneo un po’ deus ex machina. Il che potrebbe andare, il fatto è che questo elemento/personaggio non entra in modo organico nell’ingranaggio: ha un che di soprannaturale, serve – proprio nel senso di avere la funzione di – a sciogliere il freddo dal cuore di Caio, ad accendere la speranza amorosa di Achille, a rasserenare il dolore dell’aborto giovanile di Olga, a dare una scelta al gruppo, a far sentire il vuoto della vita persa in Aldo. Per poi andarsene, forse è sempre stata spirito.
Tutta la macchinosa ideazione del colpo per rubare e rivendere ad un alto prelato il santo prepuzio è tanto strampalata quanto ingarbugliata e fa un po’ perdere la tramontana.
È come se si giustapponesse quello che non si riesce a integrare più naturalmente, e cioè una maggior profondità nel disegno dei caratteri e quindi nel senso generale del lavoro.
In tale prospettiva l’esempio riuscito non è la fantasmatica Nina, ma Caio, l’ex prete ben interpretato da M. Setti, quest’uomo è inaridito ma protettivo, fa lo stronzo ma è pronto a innamorarsi perché ha bisogno di farlo, calcola ma accoglie, è il perno drammaturgico più complesso.
Si sente il desiderio di sfuggire allo stereotipo e dare più incisività a ciò che frulla nelle teste dei soggetti in scena ma le tirate “serie” cascano nel prevedibile. Non è un obiettivo facile e c’è ancora incertezza ma Carrozzeria ha provato a imboccare una strada per raggiungerlo, la ricerca sta anche in questo.
costumi Erika Carretta
voce fuori campo Andrea Di Casa
in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana e Corte Ospitale – residenze artistiche