EMILIO NIGRO | Il potere e le conseguenze. Come connaturate all’esercizio. Scaturite inevitabilmente, per la perpetuazione o la dissipazione.
Il teatro a contrapporsi, senza combattere. O così dovrebbe essere… Democraticamente, mettendo al corrente, chiamando in causa, comunicando. E tenere fede all’etimo del termine (comunicare): “fare comune”.
Dall’amore per il bene comune essere mossi perfino ad assassinare il padre. L’atto di ribellione originario al potere, alla potestà. La figura paterna forma primigenia di contatto e conoscenza del potere. Ribellarsi, è, un atto di sopravvivenza. Contrapposizione a qualcosa che si avverte distruttivo, che non dovrebbe essere. E credere di sacrificare per il bene comune. L’ingenuo Bruto sembra essere l’unico uomo, tra lupi, della congiura a Cesare. Messo in mezzo da Cassio, l’avido, l’illuso di potere agitare il tirso del sovrano (destino acquisito per nascita o per violenza), Bruto è vittima eccellente del potere e del cannibalismo susseguente. Il figlio assassino del padre. L’uomo schiavo di un concetto, di un ideale asservito alla brama. Al desiderio di comandare su altri uomini.
E’ il potere al centro dell’indagine del Giulio Cesare di Alex Rigola. Le deformazioni del potere e dell’esercizio. L’ineluttabilità di certe manifestazioni, dell’esecutività. La dura legge insita nella natura stessa, del potere, come di un fatto al di sopra e prodotto dall’uomo. La necessità, presunta, dell’ordine, quindi della fattiva sottomissione di uno a vantaggio di un altro per mantenimento sociale. La violenza, mezzo inconfutabile, l’unico, probabilmente. Ma alle indagini dichiarate, ne emergono dalle scene – per mezzo dell’azione da queste indotta su anima e intelletto di chi guarda – molteplici altre sottili, invisibili, apparse inconsapevolmente o per i doppi creati dalle meccaniche creative: il potere di uno solo, Cesare, infinito, in vita come in morte. Esigente qualsiasi sia la posizione, se in piedi o defunto. L’amore, indissolubile, originato, paradossalmente, dal potere. Un amore diverso e diversamente potente, da quello filiale. Le volontà alienate dall’amore di potere.
12 attori in scena, Michele Riondino (il giovane Montalbano televisivo) a primeggiare, nel ruolo di Marcantonio, per nome, e destinazione di parte. Cesare nelle fattezze di Maria Grazia Mandruzzato, una donna (un simbolo). La riflessione scaturita dalla visione, dal visto piuttosto che dalla relazione scaturita. La riflessione scaturita dal contesto, da Shakespeare, da cosa si sa delle intenzioni a fonte dell’opera (disinnescare l’attenzione sul dictator e spostarla sull’uomo, Bruto; le allusioni politiche Elisabettiane; la dissacrazione senza giudizio del potere) piuttosto che dalla speculazione artistica. E la forma a divorare la sostanza. L’estetica a confinare l’ethos. L’artificio ad averne sul gesto, sulla parola, sull’atto.
Una parete incolore al centro della scena, un paio di postazioni microfonate, una telecamere proiettata, spenta, sul pannello,
alla destra del proscenio. Si presenta così, lo spazio prima del buio. Icona parlante. L’immagine pre-verbale a rappresentare il potere, o l’idea che il regista vuole restituirne per codici assimilati nelle grammatiche contemporanee (i microfoni, le telecamere, feticci di potere). E per codici, anzi, per una maniacale dedizione ai codici, alla sintassi grammaticale di scena, lo spettacolo va avanti. Per due ore, di cui non se ne sente il peso, tranne in qualche naturale eccesso dialettico dovuto alla fedeltà al testo, e adoperato per rilassare l’attenzione dello spettatore e destinarlo alla riflessione diretta, rendendolo così partecipe, attivo. Due ore in cui l’attrazione per il meccanismo, la costruzione, l’ostinazione (e ostentazione) del tratto, del registico, comanda sui dinamismi attoriali e drammaturgici. Per cui gli attori confinati nelle parti – ad eccezione del Riondino a primeggiare per nome e destinazione attoriale (ma non per qualità) – interazioni attoriali cinicamente robotizzate, susseguirsi modulari quando l’occhio non è “drogato” da soluzioni e trovate estetiche o puramente oggettive. Il che non stanca. Né scoraggia. Provoca, però, una sensazione – difficile da debellare – di vacuità. Di esterrefatto. Di effimero. Diverso dall’effimero che ricrea, potente dell’irrepetibilità dell’inscenato.
Uno spettacolo indubbiamente corposo, per indicazioni, segni, politiche deterministiche (significato e significante conseguenti e chiarificati direttamente o non a seconda di circostanza), poetiche attualizzanti (provocanti l’attualizzazione e l’universalità di un testo classico), ma non efficace nell’approdo, per il quale si destina una verticalità dichiarata che non risulta. La visione resta sul palco. A saziare lo sguardo. A innescare riflessioni, che non è poco. Ma poco determinante alla relazione.
Da notare alcune interpretazioni notevolissime. Per qualità attoriali e scelte registiche cucite a genio. Indiscutibile la caratura registica, di cui evidente è la sapienza e l’innesto indipendente, l’esacerbare caratteristiche delle risorse a disposizione e dinamizzarle, la drammatizzazione talentuosa. Del resto, che Rigola sia un maestro del contemporaneo, non è una sorpresa.
GIULIO CESARE
di William Shakespeare
adattamento e regia Àlex Rigola
interpreti: Michele Riondino, Maria Grazia Mandruzzato, Stefano Scandaletti, Michele Maccagno, Margherita Mannino, Francesco Wolf, Eleonora Panizzo, Pietro Quadrino, Riccardo Gamba, Raquel Gualtero, Beatrice Fedi, Andrea Fagarazzi
versione italiana Sergio Perosa
spazio scenico Max Glaenzel
spazio sonoro Nao Albet
costumi Silvia Delagneau
illuminazione Carlos Marquerie
produzione Teatro Stabile del Veneto
Visto al Teatro Sociale di Brescia
Il potere …A… il potere quanta sofferenza e iniquita’ genera sotto la scusa dell’ordine e della disciplina distrugge quello che l’arte, la bellezza ,l’armonia e l’amore costruiscono……..Ma…….tutto poi rinasce……
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