MATTEO BRIGHENTI | Un sorriso contro l’orrore. Rachel Corrie sa che il suo posto nel mondo è un mondo migliore. Perché accada, però, deve volerlo. Altrimenti resta un globo fermo al punto in cui l’hanno lasciato gli altri, come il mappamondo luminoso accanto a cui si siede Maria Laura Caselli sul palco del Teatro Le Laudi di Firenze. Rachel parte da Olympia, Washington, per Rafah, nella striscia di Gaza, il 18 gennaio 2003, e Maria Laura dà un colpo alla sfera: il mondo gira se noi decidiamo di farlo girare, per la nostra scelta di trovare una casa lontano da casa.
Così, la giovane attrice, già al fianco di Gabriele Lavia e Sebastiano Lo Monaco, quando dice Mi chiamo Rachel Corrie non è né remissiva né sfrontata, è presente al suo primo obiettivo: far capire tutto a tutti, affinché l’esempio di Rachel non sia dimenticato. Un monologo che rappresenta uno di quei rari e genuini casi in cui la ricerca artistica si unisce all’impegno civile e politico.
La 23enne americana, infatti, partecipa attivamente alla resistenza durante l’Intifada di Al Aqsa come membro del movimento non-violento ISM (International Solidarity Movement). A poco meno di due mesi dal suo arrivo, il 16 marzo, un bulldozer corazzato dell’esercito israeliano la schiaccia a morte mentre cerca di difendere l’abitazione di un medico palestinese.
Caselli entra in scena con un balzo, la rincorsa per realizzare il suo primo progetto indipendente è stata lunga, ha attraversato gli anni di studio alla ‘Silvio D’Amico’ e nel 2016 un crowdfunding sulla piattaforma Eppela, sostenuto anche dal sottoscritto. Dichiara che per parlare di Rachel Corrie è necessario iniziare dai dettagli, ovvero dal suo diario. E proprio su quella lista di giorni che non passano uguali, ma sempre diversi, quando ogni cosa è rivelatrice di un’altra, Alan Rickman e Katharine Vine hanno costruito il testo di Mi chiamo Rachel Corrie.
Dunque, l’attrice prende in mano un quaderno, legge ed è ancora se stessa, la trasformazione o, meglio, il dialogo interiore con il personaggio è graduale, a cominciare da un cambio dei vestiti e dal diario riposto di lato. Maria Laura si spiega attraverso Rachel, e viceversa, il confine tra le due è uno spazio che il regista Antonio Ligas sembra lasciare alla libera sensibilità emotiva dell’attrice. Ragione per cui noi siamo, allo stesso tempo, il pubblico in teatro e gli amici, i familiari, il padre, Craig, e la madre, Cindy, della ragazza di Olympia, destinatari di molte sue email dalla Palestina.
Al momento ci troviamo ancora nella camera scombinata tipica di un adolescente. La scenografa Francesca Marasà ha immaginato una serie di scatole impilate, con sopra disegnate mensole di libri, quadri, il ritratto del non-fidanzato Colin. Queste scatole, girate al pari del mappamondo, scoprono le Torri Gemelle e servono a ricomporre, come un puzzle, la foto di un bimbo sulle macerie di un palazzo bombardato, trasportandoci dagli Stati Uniti alla striscia di Gaza.
La quadratura nera è percorsa verticalmente da quattro teli bianchi quanto le pagine di diario ancora scrivere e successivamente le case dei palestinesi. Le luci chiare, calde di Elena Piscitilli (su disegno di Nevio Cavina) si chiudono sull’interprete nei momenti di maggiore intimità e raccoglimento, per poi aprirsi all’intera cornice quando la risolutezza scaccia il dubbio.
“Il mio nome significa pecora, ma nella pancia ho un fuoco” scrive Rachel Corrie. Un fuoco acceso dopo un viaggio da bambina in Russia che le apre gli occhi e sveglia la mente. Cerca allora di essere utile alla sua comunità, durante il college lavora con gruppi di aiuto per i senzatetto e in un centro di malattie mentali, partecipa a manifestazioni per la pace, eppure è sempre insoddisfatta e cresce più in fretta della sua età.
Maria Laura Caselli dona alla narrazione spontaneità, freschezza e il sorriso di chi sceglie di dare alla vita il suo nome: Rachel le va incontro vedendo e toccando gli effetti della politica estera del suo Paese.
La realtà in Palestina è un continuo posto di blocco. La guerra la fanno i capi, la morte colpisce la povera gente. Le luci si screziano di rosso sangue e il sorriso di amaro, per via di alcuni incubi in cui sogna di cadere e morire. Ma non sono una novità e quindi va bene così.
Di fronte alle scatole ammassate che adesso ricordano, piuttosto, dei sacchi di sabbia, con la guerra che le infuria intorno, l’attrice sembra diventare piccola e fragile, ma non perde lucidità, come Rachel Corrie. Capisce che è inimmaginabile ciò che sta accadendo per chi non lo osserva da vicino, tuttavia anche lei non può che guardare attraverso i suoi occhi, quelli di un’attivista americana che può decidere di andarsene in qualsiasi momento.
La madre è rassicurante: non c’è niente di male a tornare. Il padre è amorevole: vorrebbe essere fiero di un’altra figlia, a portata di abbraccio, e non vorrebbe nascondere la sua testa sotto la sabbia, ma quella di lei. La 23enne americana fantastica su cosa farà una volta rientrata, ma non è ancora il momento, perché il suo sguardo sta cambiando di nuovo.
La rivelazione che le spalanca la vista è la dignità di bambini, donne e uomini che difendono la loro umanità contro “l’incredibile orrore che c’è nelle loro vite e contro la presenza costante della morte”. Solo restando può contribuire a far conoscere all’opinione pubblica internazionale la legittima autodeterminazione di un popolo. È una questione di buon senso: se ti tolgono quello che hai perché non dovresti reagire?
Rachel Corrie non indietreggia davanti alla paura, Maria Laura Caselli si ferma al centro del palcoscenico. Ha vissuto Mi chiamo Rachel Corrie in lungo e in largo, senza sosta, ma ora guarda semplicemente dritto davanti a sé. Verso le bombe che sgretolano i vetri della casa in cui Rachel gioca con dei bambini: questo non è il mondo che voleva e per cui è partita.
Sta iniziando a mettere in dubbio la fiducia nella bontà della natura umana, ciononostante Rafah è la cosa migliore che abbia mai fatto. Caselli è commossa e commovente per la sincerità e la semplicità nel testimoniare le parole dell’attivista americana, ben sapendo quello che l’aspetta. La morte, indicibile, avviene fuori scena, riportata da una voce registrata, mentre qui si spargono le ceneri sopra l’immagine di quel palazzo ridotto in polvere.
Il fuoco è spento, ma per un’ora e un quarto è tornato a bruciare. Indicandoci anche la strada dell’impegno per le nostre proprie Palestine, vicine o lontane che siano.
Mi chiamo Rachel Corrie
di Alan Rickman, Katharine Vine
con Maria Laura Caselli
regia Antonio Ligas
musiche Dario Arcidiacono
scene Francesca Marasà
costumi Michela Ruggieri
luci Elena Piscitilli su disegno di Nevio Cavina
grafica Zuxxa Grafica
voci registrate Sebastiano Lo Monaco, Giusy Saija, Roberta Azzarone
organizzatore Gabriele Geri
un progetto sostenuto da Colibrì – Centro per l’età evolutiva, SiciliaTeatro, Pippi – libri e infanzia
un ringraziamento particolare a Aldo Cambi, Chiara Pieri, Maria Antonia Piras e Pier Giuseppe Zampetti
Firenze
Teatro Le Laudi
Sabato 20 gennaio 2018