RENZO FRANCABANDERA | I sagomatori, i grossi fari teatrali con le alette che ne dirigono il fascio luminoso definendone l’ampiezza, emanano porzioni tiepide di luci da cui appaiono a mala pena le figure. In un buio che vede la platea disposta su due lati e l’azione in uno spazio al centro, prende vita su alcuni tavoli e pedane di legno l’Ubu Re diretto da Stefano Tè con un gruppo misto di interpreti, professionisti e no. Questi ultimi provengono dai laboratori che ormai da anni il regista e il suo gruppo di lavoro tengono nelle maggiori realtà carcerarie di questa zona dell’Emilia.
Da tempo, infatti, Teatro dei Venti, interessante realtà emiliana di base a Modena ma con un’intensa attività in tutta l’area ed ormai duraturi progetti nelle esperienze del disagio, specie di quello carcerario, propone un teatro principalmente fisico, ma che cerca poi di riconsegnare la parola a persone che spesso con il codice verbale della scena hanno meno familiarità. Ma questa metafora del ridare parola ovviamente non riguarda solo il teatro; così come, in generale, la difficoltà di esprimersi è purtroppo frequente in chi, vivendo spesso condizioni di disagio sociale, ha finito per commettere crimini gravi.
Negli anni il linguaggio di Teatro dei Venti si è via via sofisticato e il progetto Ubu rappresenta senz’altro un momento di riflessione importante, prima del rituale appuntamento di metà Maggio con il Festival Trasparenze, che unisce queste pratiche di periferia, di teatro che abita le strade, con i luoghi dove la questione dell’accoglienza (e non solo degli immigrati) ha il suo significato più acre.
L’allestimento, dicevamo. Premesso che Ubu è stato scelto da tutte le compagnie che lavorano nelle carceri della regione (l’Emilia è fra le regioni con la progettualità teatrale più importante nei percorsi di riabilitazione/reinserimento), la versione che ne ricava Teatro dei Venti, frutto di laboratori presso le diverse realtà in cui opera, è appunto una versione oscura, cupa, che fin dall’inizio sottrae a Ubu le sue parole. Privato il testo dell’allegria grottesca patafisica, ecco che sottotraccia ma in forma via via più visibile e netta, appare in controluce quello che per Jarry stesso fu motivo di ispirazione, ovvero il Macbeth shakespeariano.
La conquista del trono di Polonia da parte di Padre Ubu e Madre Ubu (gli attori Santangelo e Casolari) avviene quasi senza proferir parola. In un gioco di equilibri fisici, la coppia si pone nella longitudinali delle pedane, opposta al trono di Venceslao e della regina (Filippi e Figini). Fino ad usurparne il trono e prenderne il posto. Tutto è affidato a immagini, sequenze brevi che emergono dal buio, come fotogrammi di un film di sapore dark, con costumi ispirati ad un immaginario del genere, che potrebbero in realtà anche richiamare immaginari da serialità criminale televisiva, ma per fortuna l’alludere resta sempre molto molto sfumato.
Lo spettacolo fa quindi emergere dal buio alcune apparizioni, frammenta il testo in scene, elabora in forma simbolica rituali ancestrali legati al tema del potere, della dominanza, del rapporto in strutture di clan, costruendo un impianto scenico snello ma capace di grande senso dinamico. Tavoli e pedane prendono forma e architettura progressivamente verticale, fino a definire uno sviluppo piramidale in cima al quale la Madre Ubu/Lady Macbeth (una Casolari dalla vorticosa femminilità criminale) simulerà un lungo e lento lavacro di tutti i proci (gli interpreti non professionisti delle diverse case di reclusione, che fanno un lavoro fisico e collettivo molto interessante). Costoro attentano e pretendono il potere, lo cercano cercando di scalare la piramide, per arrivare alla Penelope-Lady Macbeth. Una sorta di unzione del più forte, un rodeo criminale, dove l’acqua lascia il posto alla sabbia. Qualcosa da cui non può originarsi vita. Forse che il potere stia diventando donna anche nei clan? E’ un interrogativo che l’allestimento ci lascia.
E senza speranza è anche il finale, in cui sì, il figlio di Venceslao (il giovanissimo Diego di Lascio) vendica l’omicidio dei genitori, ma a sua volta finisce per far partire anche lui un gioco al massacro. Sparando nel buio a raffica. In un futuro nero di violenza senza senso, ora che da baby regnante, gli tocca mantenere il potere, e avendo compreso a quali regole soggiace.
Riappaiono gli interpreti dal buio, in una costruzione che sa di monumento alla biomeccanica, dal sapore di epos sovietico, come a bordo di una nave che è già affondata ma di cui si cantano le gesta.
Forse qualcosa di ulteriore potrebbe recuperarsi della parola di Jarry in questo buio feroce, magari proiettandola, anche prima, o dopo. Certamente il lavoro fisico e alcune apparizioni caravaggesche dei corpi e delle masse dall’oscurità sono potenti e suggestive. In ultima analisi, infatti, la cifra di quel testo è proprio una anarchica irrisione del potere, lo sberleffo del condannato che sorride ai gendarmi che lo portano in carcere. E forse questo manca qui di Ubu, e di Jarry. Viene in mente il Marat/Sade di Brook, per avere un’idea di qualcosa di assimilabile per il lavoro fisico, ma che ponga in luce anche l’ingrediente che in questo allestimento è stato sottratto.
In compenso quello che c’è sotto, nell’anima di Ubu, nel suo sottoscala concettuale, nelle botole del testo che a più riprese in scena vengono aperte dagli interpreti di questo allestimento, quello c’è tutto. Ed è lo spazio del tragico, al quale le vite di molti degli interpreti sono forse per natura più vicine, e le cui riflessioni sul testo, evidentemente, hanno portato la regia, sicuramente suggestionata dalle riflessioni di gruppo fra le mura della prigione, a dirci che nella lotta per il potere, in fondo, da ridere c’è ben poco.
UBU RE
Uno spettacolo del Teatro dei Venti a partire dall’opera di Alfred Jarry
Regia e drammaturgia Stefano Tè.
Con Fonci Ahmetovic, Alessio Boni, Oksana Casolari, Fabio De Nardi, Diego Di Lascio,
Francesca Figini, Davide Filippi, Lucio Improta, Daniele Novelli, Giuseppe Pacifico, M. Saieva, Antonio Santangelo, Sejfuli Nadir, Felix Tehe Bly.
Assistente di compagnia Ciro Risi con la collaborazione di Marzia D’Angeli, Martina Giampietri, Elisa Vignolo.
Allestimento scenico Teatro dei Venti.
Costumi Alessandra Faienza e Teatro dei Venti.
Sound designer Domenico Pizzulo.
Assistente alla regia Simone Bevilacqua.
Organizzazione Teatro dei Venti e Daphne Pasini.
Amministrazione Francesca Ferri.
Comunicazione Salvatore Sofia.
Progetto realizzato in collaborazione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, la Casa Circondariale di Modena e la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. Produzione Teatro dei Venti con il sostegno della Regione Emilia-Romagna e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena all’interno della Rassegna Andante.
Teatro dei Segni, Modena
2 febbraio ore 21.00; 3 febbraio ore 21.00; 4 febbraio ore 17.30 e ore 21.00
…l’hai detto:”nella lotta al potere,in fondo, da ridere c’è ben poco.”………