MARCO BALDARI | Il Padre è una tragedia del 1887 scritta dal drammaturgo svedese August Strindberg. L’opera è la storia del Capitano (Gabriele Lavia in questo allestimento), uomo d’armi e provetto scienziato, che entra in conflitto con la moglie sull’educazione da dare alla figlia. Entrambi molto affezionati (quasi al limite dell’ossessione) alla bambina, non sono intenzionati a recedere dalle loro posizioni. Inizia cosi tra i due una guerra psicologica per avere “il potere” e decidere le sorti della piccola. Una lotta tutta giocata sulle parole, che vedrà prevalere la donna. Questa sfruttando le debolezze del marito e con l’accordo di tutto il resto della famiglia, instillerà nella mente del Capitano il dubbio sulla propria paternità. L’uomo da quel momento cadrà nel vortice della pazzia, che lo porterà prima all’internamento e poi alla morte.

Nelle volontà di Strindberg Il Padre nasce come un classico dramma, che partendo dal mito di Ercole e Onfale (Ercole è costretto per punizione a fare lo schiavo di  Onfale che lo dileggia e lo costringe a fare lavori femminili come filare la lana, mentre lei indossa la sua pelle di leone), vuole indagare la natura umana all’interno di una vicenda familiare. Di come i ruoli, nell’intimo delle mura casalinghe, considerati fino a quel momento immutabili, stiano in realtà cedendo. La società di fine Ottocento sta rimettendo in discussione molti dei propri valori, e lo scrittore di Stoccolma immortala questo momento.

La storia de Il Padre infatti porta al suo interno numerosi altri argomenti. Come nelle tragedie greche la vicenda familiare è solo il primo livello di lettura. L’attacco alla superiorità dell’uomo, sopraffatto dalla furbizia femminile, serve a Strindberg per analizzare un mondo che sta cambiando sotto i suoi occhi e che spesso volte lo vede perdente. Lui, uomo di lettere, ma anche di scienze, non si riconosce in un mondo ancora troppo legato a falsi miti e a credenze ereditate. Contemporaneo di Nietzsche (fu destinatario di uno dei suoi “biglietti della follia”) e Freud, si trova stretto tra la morsa di un tempo ancora fermo e l’impulso di novità di due tra i più rivoluzionari pensatori della storia. Strindberg inserisce tutte queste “nuove spinte” nella sua tragedia. Troviamo così nella figura del Capitano, quasi un alter ego dello scrittore. Un uomo di scienza, che guarda avanti, “punta alle stelle”, che mette in questione molti dei valori a lui trasmessi, ma che vive in maniera troppo esasperata il conflitto con i propri genitori, in particolare con la madre, persi quando lui era ancora piccolo.

Nella regia, curata dallo stesso Lavia, tutte queste tracce sono ben presenti e evidenziate. Il dramma familiare e il “precipitare delle certezze maschili” sono quelle in primo piano. La scena infatti si presenta come interno di una casa avvolta da arazzi rosso sangue e da mobili che stanno letteralmente per essere ingoiati dal pavimento. “L’intera casa che sprofonda, tutto sta andando a ferro e fuoco”, sono queste le parole testuali che usa Strindberg, ed è quello che ci si trova davanti agli occhi quando il sipario si apre. Ma non mancano i riferimenti più profondi alla scienza e alle teorie della psicanalisi. Il personaggio di Lavia scruta spesso il cielo con un cannocchiale, ed è a un passo da una rivoluzionaria scoperta scientifica. È troppo avanti però questo uomo, che in quella casa, circondato da un universo femminile, si trova a non essere capito, ma anzi accusato di essere cattivo. E d’altronde anche lui non è esente da colpe: vive in maniera esageratamente morbosa il rapporto con la figlia e, soprattutto, quello con la vecchia tata (interpretata magnificamente da una ‘spaventosa’ Giusi Merli). Donna che lo ha cresciuto e formato. E che sarà proprio la prima a tradirlo.

Una tragedia che dal regista viene trasformata quasi in un horror. Le luci (Michelangelo Vitullo) sono sempre molto basse, creando ombre lugubri e terribili sui volti degli attori in scena. La musica, usata come raccordo per le entrate in scena dei protagonisti, ricorda una nenia angosciante. Unico elemento sonoro sempre presente è un vento che non accenna a diminuire la propria intensità. Spazza tutte e tre le ore della messa in scena, creando ancora più disagio e straniamento. I costumi rientrano nella didascalia delle attese del pubblico.

Le prove attorali sono abbastanza efficaci e rispettano la linea tracciata dal regista. Tra tutti spicca Lavia, che nel suo stile diventato ormai un classico, riesce ad essere più che convincente. Lo stesso non si può dire per la protagonista femminile (Federica Di Martino), dotata indubbiamente di una buona presenza scenica, ma che provando a tenere le corde del Capitano, riesce in realtà solo ad imitarlo, risultando spesso forzata. Il resto della compagnia fa quasi da contorno, sottolineando però bene la lotta intavolata tra i due protagonisti.

Lo spettacolo di Lavia è nel complesso un’opera ben riuscita. Pur  ritrovando anche in questo lavoro i “vizi” di stile e recitazione spesso imputati al teatro del regista/interprete milanese, come l’opulenza nell’allestimento e i toni enfatici  e calcati nella recitazione, in questa messa in scena queste stesse cose si trasformano in punti a favore. La grandiosità della scenografia (Alessandro Camera) e l’importanza data alla parola, mettono ancora più in risalto le tematiche trattate dalla tragedia di Strindberg, regalando al pubblico in platea un’opera che fa comunque riflettere e che sottolinea, se mai ce ne fosse stato bisogno, tutta la sua immortalità.

IL PADRE

Fondazione Teatro della Toscana
Gabriele Lavia
di August Strindberg

regia Gabriele Lavia

con Federica Di Martino

e con Giusi Merli  Gianni De Lellis   Michele Demaria
Anna Chiara Colombo   Ghennadi Gidari  Luca Pedron

scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Giordano Corapi
luci Michelangelo Vitullo

 Teatro Quirino – Roma