ELENA SCOLARI | Un’America senza gioia, quella di Eugene O’Neill. Nebbiosa e malata. Anche rabbiosa e dimentica di essere “il paese delle opportunità”.
Nel decennio 1940-50, O’Neill, Tennessee Williams, Arthur Miller, Edward Albee (non una gang di spensierati compagnoni) scrivono alcuni tra i capolavori del teatro americano: Chi ha paura di Virginia Woolf, Morte di un commesso viaggiatore, Un tram che si chiama desiderio, Lo zoo di vetro, Lunga giornata verso la notte (“viaggio”, nel titolo originale). Testi nei quali si infrange il sogno americano, e quasi sempre si infrange su cocci di bottiglie, bottiglie di whisky che accompagnano gli umori altalenanti di personaggi fragili e votati al fallimento.
Dopo Albee e Williams, Arturo Cirillo affronta Lunga giornata verso la notte a chiusura della trilogia statunitense. Anche qui c’è una famiglia disastrata: Mary (Milvia Marigliano) è la madre, appena rientrata dalla clinica per disintossicarsi – invano – dalla dipendenza da morfina; James (Cirillo) è il padre, attore teatrale con una certa notorietà in gioventù, meschinamente tirchio; Edmund (Riccardo Buffonini) il figlio minore malato di tubercolosi; Jamie (Rosario Lisma) il figlio maggiore, attore di secondo piano che sperpera le paghe in alcool e prostitute. Un bel quadretto.
Nello svolgersi dell’intreccio capiamo molti dei motivi per cui i Tyrone sono arrivati a questo tragico assetto familiare: Mary ragazza era indecisa se farsi suora oppure fare la pianista, ma si innamora di James quando il giovane attore brilla nella luce della ribalta, lo sposa, hanno un figlio, il secondo lo perdono e la donna giura a se stessa che non ci proverà un’altra volta, il marito però la convince, partorirà quindi Edmund dopo una gravidanza dolorosa che la renderà dipendente dalla morfina. Groviglio tra amore materno e rabbia verso la causa involontaria del proprio male. James non sfonda mai veramente e parallelamente al teatro compra terreni, in modo casuale e per niente redditizio. E quindi beve. Jamie non ha mai trovato una sua strada, reciticchia all’ombra del padre, consapevole di rimanere in compagnia solo grazie alla parentela, è pure invidioso del fratello. E quindi beve. Edmund ha tentato la fortuna lontano da casa, vorrebbe fare lo scrittore ma è malato, gravemente. E quindi beve.
Cosa ci si può aspettare da una situazione così? Niente di buono, è chiaro. Ma il problema è che il dramma è troppo dramma fin dall’inizio. E ciò passa anche dalla recitazione, che è concetto centrale anche della lettura registica che Cirillo ha scelto.
Spiegone: i quattro personaggi sono tutti attori – non solo chi lo fa per mestiere nella storia – ognuno di loro ha infatti la propria postazione/camerino a fondo scena. Quando il ruolo non ha parte, l’attore si siede davanti al classico specchio contornato da lampadine, spalle al pubblico. Si producono così due livelli, due dimensioni sempre coesistenti: lo spettacolo davanti a noi e l’artificio teatrale che Mary, James, Edmund e Jamie mettono in scena. Ma ne sono consapevoli solo per metà, in loro ormai la realtà si confonde col ruolo, mentono “a 360°”, si sbattono in faccia crudeltà insopportabili per pentirsene un attimo dopo. A turno tutti dopo l’accusa dicono all’accusato “scusami, non volevo dire questo”. Ma intanto s’è detto.
Il tono è grave fin da subito, non c’è crescendo perché la recitazione è concitata dalle prime battute. Gli interpreti sono bravi attori, occupano bene lo spazio, rendono bene la pesantezza tetra dell’atmosfera, ma sono privati del mutare accento ed espressioni insieme all’accumulo di macerie emotive che si ammucchiano in questa tremenda giornata. Si buttano addosso l’un l’altro crudeltà feroci ma la loro presenza non cambia, questi continui macigni non sembrano ferirli più di quanto già non fossero. Prendono le cattiverie come battute di un copione, con un effetto che anestetizza il turbamento naturale che ci aspetterebbe.
L’angoscia ininterrotta finisce per togliere verità. Lo spettatore la porta con i personaggi e berci su è una soluzione che abbiamo sfiorato, diciamolo.
Se Marigliano incarna sempre con precisione accorata il nervosismo di una donna non più libera, Buffonini è un giovane malato perfetto, con la giusta patina di sofferenza, Lisma e Cirillo sono invece meno aderenti ai personaggi: troppo vicini per età, rendono il conflitto generazionale meno credibile. E Cirillo, su di sé, non ha fatto completa pulizia di qualche nota da guappo che in O’Neill non è proprio di casa.
Lunga giornata è un testo ampiamente autobiografico: O’Neill era figlio di un attore e di una pianista, era tubercolotico e ha avuto i suoi problemi con l’alcool, dipendenza diffusissima negli Usa, come vediamo anche in molti film americani molto più che in quelli europei. E famose sono le trasposizioni cinematografiche dei drammi degli autori statunitensi contemporanei a O’Neill. Al cinema le bottiglie e gli equilibri si fracassano con frastuono vero e violento, in teatro il rumore dell’inadeguatezza è tutto nelle parole e nei corpi degli attori. E qui c’è anche la droga, una madre tossica non era certo frequente, negli anni 40.
La doppia dimensione di spazio e di senso di cui abbiamo parlato si cancella in un solo momento, l’unico fuori dall’asfissia di casa: Edmund ha avuto conferma della sua malattia e cammina da solo lungo la banchina, nella nebbia a fondo palco. Quella nebbia è vera, in scena, e riassume in una sola immagine la metafora e la sua rappresentazione.
Il figlio minore è il trait d’union tra i i due livelli: quando il giovane leggerà al padre il brano scritto mentre era in viaggio per mare, una bozza di romanzo, descriverà esattamente quella dimensione, sospesa, in cui il confine tra coscienza e immaginazione è avvolto dalla nebbia.
E ci si sente più leggeri.
Lunga giornata verso la notte
di Eugene O’ Neill
con Milvia Marigliano, Arturo Cirillo, Rosario Lisma, Riccardo Buffonini
scene Dario Gessati – assistente Maddalena Moretti
costumi Tommaso Lagattolla – assistente Donato Di Donna
luci Mario Loprevite
regia Arturo Cirillo
assistente alla regia Mario Scandale
Un ringraziamento per la collaborazione a Lucia Rho
visto al Teatro Tieffe Menotti, Milano