ALICE CAPOZZA | La bianca stanza fredda di un manicomio: una gabbia di luce abbagliante, tre grandi pareti, alte fino al soffitto, invalicabili. In trasparenza, le forme del quadro Campo di grano con volo di corvi, ombre leggere che fanno intravedere il capolavoro, come se qualcuno avesse scavato il muro con le unghie, per scoprire il colore che non c’è. Scende aperta verso il pubblico una pedana, la scena vuota. Rannicchiato a terra Vincent Van Gogh, stretto nella camicia di forza, bianca anche quella.
“È stato ammesso oggi in ospedale il signor Vincent Van Gogh, trentasei anni, incapace di vivere e gestirsi in libertà. Registro degli internati Manicomio di Saint Paul, 8 maggio 1889”. Con questa breve nota Stefano Massini, autore de L’odore assordante del bianco, messo in scena, per la regia di Alessandro Maggi, al Teatro della Pergola di Firenze, ci introduce nel dramma della mente del grande pittore olandese, internato nel sud della Francia a fine Ottocento.
Alessandro Preziosi veste i panni di Van Gogh, rinchiuso nell’ospedale psichiatrico dopo essersi tagliato l’orecchio: un uomo solo, in preda al proprio delirio, con la barba incolta, spettinato, lo sguardo aperto nel vuoto, a vedere oltre ciò che c’è, incapace di vivere nella realtà degli altri, dei ‘normali’: “qui dentro tutto è lecito, là fuori invece, tra la gente sana, o si è normali o si è pazzi”.
E la straordinarietà di Van Gogh non può che essere, con ottusa semplicità, messa dalla parte dei pazzi. L’assenza del colore, di cui per tutto il tempo sentiamo gli echi dei suoi visionari dipinti, è la vera protagonista del racconto, rappresentata dall’imponente scenografia di Marta Crisolini Malatesta e sottolineata dalle luci di Valerio Tiberi e Andrea Burgaretta.
Vincent riceve nella sua prigione la visita del fratello Theo, interpretato da Massimo Niccolini, e il loro serrato dialogo si confonde tra realtà e allucinazione. Non sappiamo se la presenza del fratello sia reale o il frutto allucinato di Vincent. Svelano l’inganno della mente del pittore i portatori di realtà, che pietrificano anche lo spettatore, che ha creduto finora alla sua liberazione. Si tratta degli infermieri Gustave e Roland (Alessio Genchi e Vincenzo Zampa), sadici carcerieri, un Gatto e la Volpe malvagi, un Rosencrantz e Guildenstern che si finiscono le frasi a vicenda, viscidi, sottili, striscianti e del presuntuoso Dottor Vernon Lazàre (Roberto Manzi), il caporeparto, “quello che cura i dementi ma è demente più di loro”, contro cui si scaglia tutta la rabbia di Van Gogh.
Il pittore matto è un pericolo pubblico, da rinchiudere in fretta. Anche se “socialmente placido”, inoffensivo, “quando una testa è marcia fa paura, va cacciata, sporca il resto”. Si avverte la violenza di una società incapace di accettare il diverso, nell’Ottocento come oggi, e il bisogno, nevrotico anch’esso, di fare pulizia, di unirsi solo ai propri simili, tutti incapaci di vedere la ricchezza della diversità. Con un esempio del passato Massini ci mostra l’assurdità della società contemporanea che non sa guardare oltre la propria banale e ridicola normalità.
Nelle torture a cui è sottoposto Vincent si odono i pochi suoni dello spettacolo (curati da Giacomo Vezzani), rumori assordanti di treni, fischi, suoni penetranti come un grido, che ben si accordano all’ambiente: niente musica, proibito leggere, dipingere, niente colori, niente pennelli, niente di niente. “L’arte agita, turba, eccita”.
Il Direttore dell’ospedale, il Dottor Peyron, interpretato da Francesco Biscione, inaspettatamente interrompe il supplizio del paziente e ascolta le istanze dell’artista. Un personaggio salvifico che mette in discussione la realtà come unica e inequivocabile, “due più due non fa necessariamente quattro”, appassionato di nuove tecniche, come l’ipnosi, la psicologia (del 1899 è prima edizione de L’interpretazione dei sogni di Freud, che porta all’apertura di nuovi orizzonti e possibilità).
Prende così il via un viaggio nei pensieri di Vincent, fatto di visioni, immagini, ricordi, emozioni, come fossero colori su una tela. Sembra quasi di scorgere con maggiore nitidezza i graffi incisi sulle pareti a disegnare i corvi del celato quadro di Van Gogh. E quel bianco accecante è sostituito lentamente e finalmente dal caldo giallo del finale, come la luce su I girasoli, come La casa gialla, La camera di Vincent ad Arles, sogno, forse. “Il colore sulla cima di un pennello è come un fiore che sboccia”.
Con questo testo, Premio Tondelli Riccione Teatro 2005, Stefano Massini, con la poesia che lo contraddistingue, affresca parole su un quadro: sembrano poggiarsi sulle pareti, come fossero pennellate; le parole sono i colori che mancano alla mente di Van Gogh.
Sta nella drammaturgia la forza di questo spettacolo, nel gusto della parola detta, anche se, come accade a volte con alcune messe in scena della prosa di Massini, si esce con la voglia di leggere il testo, piuttosto che di rivedere la performance.
La regia, infatti, seppur equilibrata e pulita, non aggiunge energia comunicativa: i personaggi più interessanti, sia per interpretazione che per scrittura, sono i cattivi infermieri e il perfido dottore, sebbene sopra le righe, quasi caricaturali, mentre le figure più realistiche, il pittore, il fratello e il direttore, hanno paradossalmente meno forza, in una vicenda scenica che oltre alle parole manca di slanci particolari ulteriori, appiattita non di rado al servizio dell’interprete principale.
VINCENT VAN GOGH
L’odore assordante del bianco
di Stefano Massini
con Alessandro Preziosi e con Francesco Biscione, Massimo Nicolini, Roberto Manzi, Alessio Genchi, Vincenzo Zampa
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
disegno luci Valerio Tiberi e Andrea Burgaretta
musiche Giacomo Vezzani
aiuto regia Angela Zinno
regia Alessandro Maggi
produzione Khora.teatro
in coproduzione con TSA – Teatro Stabile D’Abruzzo
in collaborazione con Festival dei 2mondi – Spoleto
testo vincitore del Premio Tondelli Riccione Teatro 2005
Teatro della Pergola
Firenze
Domenica 11 febbraio 2018