ILENA AMBROSIO | «Riccardo, mi dimenticherai?». La domanda che Simona, da morta, rivolge al marito inquadra subito la sua spasmodica ansia: restare nel ricordo, non essere dimenticata. Entra in scena con un portalampada in mano, emblema di una vita concreta della quale lei non fa più parte; vestita di colori vividi come vivido vorrebbe restasse il ricordo di lei. Inizia così La vita ferma. Su una scena riempita da pochi oggetti, – della stessa autrice sia scene che costumi – si snoda la vicenda di una famiglia segnata dal lutto. Ciò che si narra è il rapporto tra defunta e familiari e, come da drammaturgia “calamaresca”, universalmente tra morti e vivi.
Alla richiesta l’uomo è titubante, sa che è biologicamente impraticabile. L’elaborazione del lutto è un meccanismo di «salvaguardia della specie dei vivi», antidoto al dolore, in un rovesciamento irriverente ma umanissimo della corrispondenza d’amorosi sensi foscoliana. Il ricordo, come il dolore, prima o poi «svapora» e in questo svaporamento, dispersione dei dettagli che facevano intera una persona, sta l’istinto di sopravvivenza dell’essere umano. In ciascun atto, oggetti raccolti in un contenitore – biglie, le stelle del primo incontro, medicinali, liquirizie – vengono lanciati sparpagliandosi: molteplicità che si disperde e che si perde.
E, infatti, quando cinque anni dopo la morte di Simona, padre e figlia si ritrovano al cimitero, non rammentano dove sia la sua tomba. Alle loro spalle sagome umane, dai contorni indefiniti ma dai colori vivaci, quelli degli abiti di Simona, quelli di un ricordo che ha perso i tratti precisi di una persona.
La vita ferma non racconta la morte di Simona: la causa resta vaga, il suo stesso verificarsi è come mimato dalla figlia Alice che, alla fine dell’atto II, in un monologo straziante – profondissima l’interpretazione della Redini –, fa le prove del morire e nel disperato esercizio la diventa la madre stessa. In questo racconto-non-racconto di una morte, sta la chiave di volta. Prima avevano prevalso l’ironia – squisitamente english il dialogo interpretato da Riccardo Goretti e Simona Senzacqua –, la familiarità; dopo ci sarà l’imbarazzante dimenticanza; ma qui, nel mezzo, c’è il dolore e, soprattutto, la sua condivisione. C’è, insomma, il pathos, parente stretto della pietas, compassione che conduce dentro i sentimenti altrui.
Lucia Calamaro non è nuova al racconto del dolore. Il suo lavoro è, anzi, ricerca del modo miglio per dirlo il dolore, quello viscerale, che stravolge la vita. Tumore: lo strazio inaudito di una madre che perde la figlia; ma anche L’origine del mondo, sofferenza, forse più “quotidiana” di una depressione non ben specificata, ma devastante. Qualcosa, però, cambia in La vita ferma ed è l’attenzione all’umanità. Tutto si fa più familiare, realistico; i personaggi sono propriamente persone delle quali conosciamo i nomi – quelli veri degli attori, persino. La stessa parola, pilastro nel teatro della Calamaro, acquista un più marcato valore comunicativo.
L’origine di questa svolta ci riporta al fine de La vita ferma: recuperare l’unico sentimento capace di «raccontare i disastri che compongono in parte una vita», il pathos, la compartecipazione alla sofferenza altrui. Lo fa mettendo in scena il distacco, la dimenticanza; senza alcuna condanna: l’oscenità, l’«indecenza» del non ricordo sono altrettanto umane, e perciò comprensibili, vie di fuga dal dolore. «O ci pensi e ti sfaceli o non pensare più». Eppure nel finale il «Tu che dici?» rivolto allo spettatore apre uno spiraglio. Cosa ne pensi, tu? Cosa ti resterà della nostra vicenda, che è poi la tua, e di tutti? In tre parole l’universalità di una pena cui tutti siamo condannati, ma anche la possibilità di condividerla, di dirla. La prospettiva, insomma, di una strada diversa, di una vita che non sia ferma per istinto di sopravvivenza, che accetti il dolore ma con esso possa abbracciare anche il ricordo; una vita che non sottostia all’«osceno e scandaloso diktat dell’oblio».
LA VITA FERMA
Sguardi sul dolore del ricordo
dramma di pensiero in tre atti
scritto e diretto da Lucia Calamaro
Con Riccardo Goretti, Alice Redini, Simona Senzacqua
Assistenza alla regia Camilla Brison
Scene e costumi Lucia Calamaro
Contributi pitturali Marina Haas
Direttore tecnico Loic Hamelin
Produzione Sardegna Teatro, Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro di Roma
Coproduzione Festival d’Automne à Paris / Odéon-Théâtre de l’Europe
In collaborazione con La Chartreuse – Centre national des écritures du spectacle
e il sostegno di Angelo Mai e PAV
Teatro Piccolo Bellini
28 novembre/3 dicembre 2017