LAURA NOVELLI | Sebbene ancora (e purtroppo) poco nota in Italia, Caryl Churchill è una delle drammaturghe più importanti della scena britannica e internazionale. Sulle barricate della sperimentazione linguistica e dell’audacia tematica da decenni, Churchill (oggi settantenne ma attiva sin dai tempi in cui frequentava l’università) appartiene a quella angry generation teatrale che ha fatto piazza pulita del naturalismo e del dramma borghese scuotendoli alla radice, sbattendo in faccia al pubblico le contraddizioni più ambigue e più scabrose della società, descrivendo scenari politici con una tessitura drammatica sempre sghemba, lirica, surreale. Mai prevedibile. Mai omologata.
Non è un caso che il suo repertorio abbia rappresentato un modello da imitare per quegli autori connazionali molto più giovani che il critico Aleks Sierz ben racconta nel libro In-Yer-Face-Theatre (uscito in Inghilterra nel 2001 e pubblicato in Italia da Editori & Spettacolo cinque anni dopo). Alludo a nomi di calibro come Sarah Kane, Mark Ravenhill, Rebecca Prichard, solo per fare degli esempi. Nella scrittura di Churchill (e cito, tra gli altri, i titoli Mad Forest, The Skriker, Blue Heart, Top Girls) l’impegno sociale si sposa con la trasfigurazione immaginifica, la ricerca formale con la spregiudicatezza dei contenuti, la violenza delle situazioni con la libertà “musicale” della struttura. A fare da sottofondo, anche nei tanti brevi radiodrammi composti per la BBC, vi è sempre l’analisi critica di temi forti quali il sopruso, il razzismo, la violenza, il sessismo, le discriminazioni di genere, il perbenismo borghese, il capitalismo occidentale, gli inganni della comunicazione, i rapporti di forza nei legami affettivi. Capisaldi, questi, di un’attenzione maniacale alla contemporaneità che si estende pure agli adattamenti di opere classiche. Basti considerare il celebre Thyestes del ’94 ispirato a Seneca che fu, a sua volta, vettore di ispirazione per Phaedra’s Love di Sarah Kane.
Ebbene, su questa grande scrittrice teatrale, tradotta in Italia da Paola Bono, si concentra il lavoro più recente della regista romana Giorgina Pi e del Collettivo Angelo Mai, promotore del corpus Non Normale, Non Rassicurante. Progetto Caryl Churchill, curato in collaborazione proprio con Paola Bono. Dopo Caffetteria Blu e il radiodramma Not Not Not Not Not Enough Oxygen andato in onda a novembre nell’ambito della rassegna Tutto esaurito! Trenta giorni di teatro a Radio3, nei giorni scorsi abbiamo visto al teatro India di Roma Settimo cielo (traduzione di Riccardo Duranti), pièce del 1979 mai rappresentata nel nostro Paese che, a distanza di quasi quarant’anni dal debutto, risuona ancora attualissima. Giorgina Pi ne firma regia e scenografia, pensate come un tutt’uno inseparabile. Lo spazio scenico è infatti senza quinte: un piccolo piano elettrico, qualche poltrona da teatro, due lunghe panchine laterali dove gli interpreti vanno a sedersi dopo aver recitato (come fossimo in un gioco di sdoppiamenti dalle declinazioni brechtiane) ne riempiono l’ariosa atmosfera pervasa sa luci verde-blu (le cura Andrea Gallo) e fumo.
Sul fondo c’è un pallone, dapprima sgonfio poi sempre più visibile, che rappresenta l’impero coloniale inglese: aperta allusione al mappamondo del Grande dittatore di Charlie Chaplin e alla scena in cui Hitler gioca con il globo disseminando morte e prevaricazione a passo di danza. Un’insegna luminosa ci aiuta ad ubicare e datare la vicenda: Africa 1879. Nessuna allusione storica o realistica, però. Perché, a bene vedere, in questo luogo vistosamente pop e post-moderno, si accumulano detriti di umanità senza tempo. Il perno su cui ruota la vicenda è Clive (Marco Spiga), un marito/padrone autoritario e viscido che difende la politica coloniale vittoriana ergendo a vessillo il suo servitore nero (impersonato da un attore bianco, Lorenzo Parrotto). La determinazione machiavellica con cui il colonizzatore domina il (suo) mondo appare, tuttavia, mera illusione. Clive è un marito infedele; un uomo che non prova alcun affetto per il giovane figlio gay (ruolo dove troviamo l’efebica Tania Garribba) e per la moglie (ancora un interprete uomo, Alessandro Riceci), che lo tradisce a sua volta con una baby-sitter omosessuale poi costretta a ‘giuste’ nozze.
Tutto (o nulla) accade mentre giungono voci di ribellione dai villaggi dintorno; mentre il popolo nero viene trucidato e sottomesso alla grande causa della civilizzazione bianca. Dunque, sembrano essere due i riti che si consumano sotto i nostri occhi: quello dell’infelicità domestica dell’uomo occidentale e quello dello scandalo razziale perpetrato ai danni del Continente nero. Due dissoluzioni complementari, connesse, sovrapponibili.
Malgrado, però, la scrittura della Churchill sia estremamente incisiva e visionaria e la rilettura registica della Pi ricca di scelte originali e intelligenti (l’incipit canoro è, ad esempio, di grande effetto così come l’intera colonna sonora), qualcosa nell’insieme non funziona. Probabilmente la recitazione sovraesposta ed esteriorizzata degli interpreti non giova al ritmo complessivo di questo primo quadro. Si avvertono delle slabbrature nella scrittura scenica e, a tratti, la tensione cala.
Funziona meglio la seconda parte, laddove l’azione si sposta di un secolo e un’insegna simile alla precedente ci avvisa che ci troviamo a Londra nel 1979. Data emblematica. C’è stato il ’68. Ci sono stati i ruggenti anni Settanta. La rivoluzione giovanile. Il movimento femminista. Gli hippies. Il rock. La sub-cultura punk è già esplosa. Eppure questa città appare ancora perbenista, razzista e retrograda. L’azione si svolge in un parco. Bastano poche panchine per accogliere l’intreccio di storie, amori, pulsioni, desideri cui danno vita i personaggi, concepiti chiaramente come una proiezione dei ‘progenitori’ fotografati nel primo atto. Al centro dei fatti c’è ora Vicky (la già citata Garribba), una giovane moglie e neo-mamma che ama un’altra donna, la battagliera Lin (Aurora Peres), e che non nasconde la sua infelicità coniugale. Suo fratello fa il giardiniere nel parco ed è anch’egli omosessuale. La madre dei due (l’ottima Sylvia De Fanti) sembra invece una borghese compita. In realtà ella trova il coraggio di rompere gli schemi: dopo decenni di matrimonio ingrigito dalla routine, lascia il marito e affronta il vuoto della sua solitudine. Intanto sul fondo della scena campeggia una gigantografia di Margaret Thatcher: i sussulti xenofobi, omofobi, razziali vivono un nuovo colonialismo capitalistico, e ci pensa la musica a tradurli in rivolta. Si fanno sempre più evidenti l’ossatura meta-teatrale del lavoro, le declinazioni epiche della regia e della recitazione, l’uso cabarettistico dei costumi e degli intarsi musicali, l’amplificazione della voce attraverso microfoni: dispositivi anti-mimetici che evocano alcune coraggiose regie di Antonio Latella (in particolare, Francamente me ne infischio – ispirato a Via col vento – e Un tram chiamato desiderio). Abolita ogni convenzione aristotelica, il 1879 e il 1979 finiscono insomma col sovrapporsi. Perché poco è cambiato in un secolo di Storia e i due quadri si avvicinano tra loro al punto che nell’epilogo i personaggi del primo atto, ormai ombre e fantasmi, tornano in vita per riannodare le fila di questo racconto politico (e umano) di illuminante attualità. Scrive a tal proposito la regista: “Il rapporto tra sesso e potere attraversa ancora i nostri giorni, e questo ci rende autori di quest’opera: del terzo atto, quello mai scritto […]. I personaggi sono dei transfughi, nei secoli e nei luoghi: soggettività escluse, “impreviste”, che tentano tra un atto e l’altro un processo di liberazione dal colonialismo imposto sulle loro vite. Settimo Cielo è un’opera di decolonizzazione che passa attraverso il teatro come strumento di rivolta. La sola cosa data è la presenza dell’attore e dell’attrice e la fisicità di queste vite”.
SETTIMO CIELO
di Caryl Churchill
traduzione Riccardo Duranti
regia Giorgina Pi
con Marco Cavalcoli, Sylvia De Fanti, Tania Garribba, Lorenzo Parrotto, Aurora Peres, Alessandro Riceci, Marco Spiga
scene Giorgina Pi
costumi Gianluca Falaschi
musica, ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
luci Andrea Gallo
Produzione Teatro di Roma, in collaborazione con Sardegna Teatro, Angelo Mai/Bluemotion
Teatro India, Roma
14-25 febbraio 2018