ELENA SCOLARI | Umberto Orsini è un elettrone, Massimo Popolizio è un fotone, Giuliana Lojodice è il nucleo dell’atomo intorno al quale i due si rincorrono fino allo scontro che genererà energia. Lo so, a guardarli non sembrerebbe ma è proprio così.
Questa “scenetta” è l’esempio elementare che i due super fisici Niels Bohr e Werner Heisenberg (rispettivamente Nobel 1922 e 1932) utilizzano per spiegare il principio della fissione alla moglie di Bohr, Marghrete. Meccanica quantistica for dummies.
I tre sono ormai morti e li ascoltiamo parlare tra loro, in scena, in un tempo indefinito, rivivono con noi i dubbi, gli slanci, gli entusiasmi, le paure di anni passati ma ancora non del tutto spiegati. Calati in un’aula di fisica, circondati da lavagne ricoperte di formule, calcoli e dimostrazioni, discutono di una sera speciale, una sera del 1941, a Copenaghen, durante l’occupazione nazista, quando Heisenberg andò a trovare il suo ex maestro Bohr per parlargli di qualcosa che lo agitava molto.
Copenaghen è anche il titolo dello spettacolo che la Compagnia Orsini ha deciso di riportare nei teatri a diciotto anni dal debutto e dopo altre riprese, riproponendo l’attenta regia di Mauro Avogadro, per tanti anni assistente alla regia di Luca Ronconi. Il bel testo, preciso, problematico, lucido, è dell’inglese Michael Frayn, noto per essere anche l’autore di Rumori fuori scena, opera di tutt’altra natura.
Tutto lo spettacolo gira intorno al motivo per cui Heisenberg fece visita a Bohr in quella giornata del settembre ’41. I due scienziati erano schierati su fronti opposti nella ricerca: forse il brillante fisico tedesco voleva offrire appoggio da parte della Gestapo al suo padre scientifico mezzo ebreo in cambio di segreti, con l’idea di proteggerlo? Oppure tentava di rallentare il programma nucleare della Germania fornendo informazioni al danese (che stava dalla parte degli alleati) sulle possibili applicazioni “esplosive” della teoria della fissione? È lo stesso Heisenberg che – ancora tormentato dopo la morte – si interroga su ciò che lo mosse allora.
I piani temporali si sovrappongono, le diverse versioni vengono messe in scena come in un processo “a mente aperta”, del quale seguiamo le fasi dialettiche. Invece di essere John Malkovich siamo Niels Bohr e Werner Heisenberg, contemporaneamente. Bel colpo.
L’indeterminazione enunciata nell’omonimo principio fisico è anche l’indeterminazione umana, più versioni di un fatto per più punti di vista, ognuno afferma una verità “relativamente” a sé e al proprio stato, come insegnò Einstein.
E così immaginiamo che tutti gli scienziati impegnati nella ricerca sulla fissione dell’atomo, da Fermi a Oppenheimer, si siano chiesti se dare ascolto alle proprie intuizioni, se davvero i loro calcoli avrebbero portato – direttamente o no – alla costruzione di un giocattolo mortale. Responsabilità.
Si parla in questi giorni di un teatro tornato politico, cosa è più politico che riflettere sulla responsabilità personale? E in questo caso una responsabilità che ha cambiato il mondo distruggendone per sempre una parte. È politico parlarne, è politico usare il mezzo teatrale per suscitare interrogativi nel pubblico, dalla bomba atomica in giù.
Senza ombra di incertezza trovo però molto più pungente uno scavo umano come quello di Copenaghen rispetto ai parlamentini di una sera (vd Pendiente de voto) o ai moralistici modellini in scala delle differenze sociali (vd Birdie). Con tutta l’ammirazione per questi esperimenti teatrali, non ci volevano certo i telecomandi di Bernat per insegnarci che la democrazia non è esente da difetti.
I tre attori sono un piacere rotondissimo per lo spettatore: Orsini per la sua splendente e signorile naturalezza, Popolizio per la sua decisa aderenza a un personaggio un po’ strafottente ma estremamente sfaccettato, Giuliana Lojodice per la sicura capacità di essere un terzo polo imprescindibile che introduce il dubbio umano nell’indagine. Marghrete rappresenta infatti una chiave di interpretazione psicologica, è lei che legge i comportamenti dei due uomini – apparentemente solo dettati dall’amore per la scienza – secondo i loro caratteri, applicando le debolezze e le qualità di ognuno alle loro azioni, spiegandole secondo un’ottica che mostra come anche nel modo di procedere scientifico si sia influenzati dalla propria indole. Bohr è riflessivo, calmo, strategico, Heisenberg è irruente, veloce, audace, sono come le loro teorie.
Questi grandissimi attori mettono il carattere dei loro personaggi anche in come spostano le sedie, come le posano indica lo stato d’animo. Come l’una abbassa la testa e come l’altro volta lo sguardo ci dice cosa stanno pensando. In un teatro eminentemente di parola, i movimenti aggiungono gli accenti, i gesti accompagnano l’intonazione. Mirabili.
Mi sentirei di fare una sola osservazione a Massimo Popolizio, che mette sempre una nota di cinismo nella sua recitazione, un distacco scientifico e sferzante che talvolta fa prevalere la sovrastruttura sul contenuto. Nel monologo in cui descrive la sua patria straziata dai bombardamenti, c’è l’incalzare della voce, il tono che diventa febbrile ma il tormento che ne dovrebbe risultare non risulta altrettanto reale.
Bellissimo è invece l’episodio sul momento dell’intuizione: l’eccitazione incontenibile di quando si risolve un problema, l’attimo in cui si capisce cosa inceppava un ragionamento, una forza che ti spinge in cima a una montagna.
Per capire cosa succede all’elettrone/Bohr/Orsini dopo lo scontro con il fotone/Heisenberg/Popolizio bisogna analizzare entrambe le particelle, l’una è stata modificata dall’altra, l’incontro cambia tutti gli elementi. Ma è il nucleo/Marghrete/Lojodice a farlo capire. A noi e a loro.
Copenaghen
di Michael Frayn
traduzione Filippo Ottoni e Maria Teresa Petruzzi
regia Mauro Avogadro
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio, Giuliana Lojodice
produzione Compagnia Umberto Orsini e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
In collaborazione con CSS Teatro Stabile di Innovazione
Si ringrazia: Emilia Romagna Teatro Fondazione
Teatro Sociale di Como, 27 febbraio 2018