LAURA NOVELLI | C’è una macchia tragica – amartìa la chiamavano i greci – che pesa sulla stirpe di Edipo. Un destino di morte ineluttabile. Una familiarità fatale con il regno delle ombre. Uno scompaginamento di qualsiasi prospettiva catartica. Il mito di Antigone racconta questa latenza, questa pulsione distruttiva (nonché autodistruttiva) in virtù della quale i figli del re di Tebe dovranno pagare con la loro vita il misfatto paterno.
Non c’è redenzione. Non c’è perdono. Solamente il bisogno intrinseco di lavare quella macchia. Il mito è spregiudicato e feroce. Nondimeno lo è l’omonima tragedia di Sofocle. Un capolavoro indiscusso del teatro classico dove la legge della famiglia, degli affetti, del sangue, rappresentata dall’eroina del titolo, si contrappone a quella della città, della politica, dello Stato, incarnata da Creonte. Terreno di scontro: il cadavere del ‘traditore’ Polinice, rimasto insepolto dopo lo scontro in battaglia con il fratello Eteocle, anch’egli ucciso durante il combattimento.
Antigone è sorella di entrambi e ad entrambi i corpi vuole rendere il dovuto onore. Ma Polinice ha mosso il suo esercito contro Tebe (e contro il fratello) e il nuovo Re ordina che egli diventi cibo per gli avvoltoi. Da questo inestricabile groviglio di conflittualità si generano – come è noto – i fatti successivi e il mostruoso, orrendo epilogo. L’intera tragedia, a ben vedere, si muove in bilico costante tra la vita e la morte, la luce e le tenebre e finisce col mettere in scena (teatralizzandola) una lunga, angosciante e arcaica cerimonia funebre.
Sembra proprio partire da qui la nuova lettura registica che Federico Tiezzi fa dell’opera nello spettacolo di scena al Teatro Argentina di Roma in questi giorni. Uno spettacolo solenne, compassato, rituale, visivamente molto raffinato, dove la traduzione (a cura di Simone Beta) e l’adattamento drammaturgico (lo firmano lo stesso Tiezzi insieme con Sandro Lombardi e Fabrizio Sinisi) riescono a traghettare la forza antica della lingua sofoclea verso scenari mentali assolutamente moderni. E non potrebbe essere diversamente visto che questa Antigone del 2018 mostra un legame stretto con un precedente allestimento del 2004 per il quale il regista toscano aveva scelto di affrontare Sofocle nella trasposizione di Brecht (ovverosia, ‘trasposizione’ anche in una visione epica, straniata, scomoda del teatro). Proprio come aveva fatto, alla fine degli anni ’60, il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, creatori di quella superba Antigone tribale e quasi danzante che, nella sua cruda nudità scenica, aveva rappresentato un significativo manifesto contro la guerra, ‘orrore’ di ogni tempo e di ogni popolo.
L’allestimento attuale – seconda tappa di una trilogia sul dissesto della famiglia avviata con il Calderòn pasoliniano del 2016 – ricapitola molta della produzione teatrale firmata dalla coppia Tiezzi-Lombardi negli ultimi anni, e dunque va interpretato all’interno di una storia artistica da sempre molto attenta alle sue scelte e ai suoi indirizzi programmatici (www.lombarditiezzi.it). In linea di continuità con la regia del 2004 si pone qui, per esempio, l’impianto scenografico che fa da sfondo alla vicenda: realizzato da Gregorio Zurla, esso ci introduce prima in un elegante sala da pranzo borghese (con echi che giungono proprio dal Calderòn) dove stride la presenza di un cadavere disteso a terra, poi in una sorta di ospedale/obitorio occupato da barelle e cadaveri all’interno del quale si muove il Coro, costituito da morti redivivi che tanto ricordano certi personaggi de l’Affare Makropulos diretto da Ronconi nel 1993: un lavoro, appunto, sull’utopia dell’eterna giovinezza, sul desiderio di eternità, sull’illusione di sconfiggere thanatos.
Siamo – e torno a quanto dicevo sopra – in una zona di confine tra la vita e la morte. Nulla di ciò che succede è privo di sentimenti funerei, di una pesantezza lugubre. L’impostazione meta-teatrale del lavoro aggiunge poi un ulteriore alone di esposizione ‘pericolosa’ verso il nulla. Ed ecco Brecht dietro Sofocle. Perché, pur tenendo fede al testo della tragedia classica, i registri interpretativi degli attori sembrano volerci raccontare un teatro anti-illusionistico, che si pone domande su se stesso. Nei panni di Creonte troviamo ancora una volta, come tredici anni fa, Lombardi: voce quasi metallica, abiti di foggia orientale prima dai colori accesi poi più cupi, gestualità pacata, dizione lucida e cristallina, egli incarna la miopia del Potere, la calcolata scellerataggine della Politica ma anche il magma dubbioso che ne deriva, le contraddizioni di un’etica ogni volta da inventare.
Il suo straniamento ce lo mostra, infatti, quasi vittima di se stesso: vittima di un tranello della Sorte di cui il potente re si accorge solo quando la tragedia che lo attende è ormai già in atto. Più viscerale, appassionata ed emotiva la prova di Lucrezia Guidone che, splendida nel ruolo del titolo, si muove in un registro volutamente più lirico per restituire la forza di una figura archetipica ma a noi vicina. Una donna ‘ribelle’ e al contempo consapevole della sua personale storia familiare. Il furore di questa Antigone moderna si rivolge contro la legge degli uomini eppure non è semplice idealismo. E’ ribellione contro la guerra, contro la morte, contro l’oblio che rischia di cancellare la memoria del fratello.
Questa Antigone della Guidone – già apprezzata interprete a giugno scorso de La signorina Else di Arthur Schnitzler messa in scena da Tiezzi nell’antico Teatro Anatomico dello Spedale del Ceppo a Pistoia (dunque ancora un obitorio) – ostenta una compostezza saggia e guerriera. Nei sui eleganti abiti ora neri ora dai colori luminosi (fino al vivace arancione che la avvolge quando ormai il suo destino si sta per compiere), lei sa che quella amartìa di cui porta il peso può essere lavata solo con la morte propria e dei fratelli. Della morte vuole abbracciare tutto, senza enfasi né incertezze.
Su un piano vistosamente grottesco, persino clownistico, giocano invece il Tiresia/burattino di Francesca Benedetti, la Guardia arlecchinesca di Massimo Verdastro, il Corifeo showman di Lorenzo Lavia. Mentre centrifuga rispetto a questo mulinello mortifero che costituisce il cuore stesso della tragedia appare la quarta figlia di Edipo, Ismene (Federica Rosellini), ingenua e troppo fragile per sentire realmente il Fato che incombe. Anche Emone (Ivan Alovisio), il giovane figlio di Creonte promesso sposo ad Antigone, potrebbe sembrare dimesso e debole, ma la forza con cui punisce il padre togliendosi la vita lo trasforma in un Ercole furente di rabbia.
La sua morte, avvenuta in reazione a quella di Antigone, segna la fine di ogni cosa, di ogni ordine apparente. Da questo momento in poi sappiamo che ciò cui stiamo assistendo è già frantumato, è un universo squadernato ante quem. Non è un caso che reperti di archeologia classica cadano dall’alto negli intarsi video dislocati in diversi momenti dello spettacolo e curati da Luca Brinchi e Daniele Spanò. Non è un caso che un cunto siciliano in vestiti odierni si faccia carico di ricapitolare i fatti luttuosi della vicenda. Così come non è un caso che alla fine – compiutasi la terrificante profezia di Tiresia – questo cimitero di anime venga lavato e disinfestato da una squadra di addetti alle pulizie in tuta da lavoro che sgomberano l’obitorio dai suoi cadaveri, dal suo sangue. Il palcoscenico si fa semivuoto. La ‘recita’ è finita. La Tebe antica diventa un qualsiasi luogo di oggi. E quegli operai disinfestatori sono il vero anello di congiunzione tra la vita e la morte, il teatro e la finzione, l’orrore di ieri e quello di oggi.
ANTIGONE
di Sofocle
traduzione Simone Beta
adattamento e drammaturgia Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi
regia Federico Tiezzi
con Ivan Alovisio (Emone),
Francesca Benedetti (Tiresia),
Marco Brinzi (Coro),
Carla Chiarelli (Coro),
Lucrezia Guidone (Antigone),
Lorenzo Lavia (Corifeo),
Sandro Lombardi (Creonte),
Francesca Mazza (Coro /Euridice),
Annibale Pavone (Coro/Messaggero),
Federica Rosellini (Ismene),
Luca Tanganelli (Coro /Ragazzo),
Josafat Vagni (Messaggero),
Massimo Verdastro (Guardia)
scene Gregorio Zurla – costumi Giovanna Buzzi – luci Gianni Pollini
canto e composizione dei cori Francesca Della Monica
movimenti coreografici Raffaella Giordano
assistente alla regia Giovanni Scandella
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale e Compagnia Lombardi Tiezzi
si ringrazi per la collaborazione il Comune di Spoleto e per il cunto Davide Enia
Teatro Argentina di Roma, 27 febbraio-29 marzo 2018