f5bfdcbc903e0b42613d049c4862823f--a-cell-mona-lisa.jpgRENZO FRANCABANDERA | Diciamo che le intemperanze di Keith Jarrett contro chi alla Scala di Milano nel 2007 ardì abbandonarsi ad un colpo di tosse sono ben lontane. Ma l’artista, che nello stesso luglio aveva insultato la città di Perugia perchè un fan si era messo a fotografarlo durante un concerto, era certamente uno che poco tollerava le interruzioni o le anche solo involontarie intemperanze del pubblico. Non sono rari i casi in cui interrompeva tutto, e buonasera!
Sette anni dopo nel 2014 era salito agli onori della cronaca il maestro Barenboim, sempre al Teatro alla Scala, quando dopo aver accennato le prime battute della sonata D845 di Schubert, un flash proprio alla destra del palcoscenico lo distrasse. Barenboim fermò il concerto, e andò dalla fotografa apostrofandola: «signorina io cerco di darvi il meglio, ma voi non avete rispetto. Ve l’ho detto a ogni concerto, la prima volta in tono scherzoso adesso lo dico sul serio. Quelli che fanno le fotografie durante i concerti sono dei maleducati».
E giù applausi da tutto il teatro, prima che il maestro riprendesse tranquillo a suonare.
Poi era successo giusto un anno fa a Toni Servillo durante lo spettacolo Elvira, al Piccolo di Milano: “Abbiamo finito con questo cellulare? – disse allora, interrompendo la replica, e rivolgendosi allo spettatore in prima fila che dall’inizio dello spettacolo non aveva smesso un attimo di mandare messaggini e telefonare – Qui ci sono persone vere, non è la televisione. Ricominciamo da quando Elvira entra correndo, grazie”. Anche lì giù applausi.

Ad un anno di distanza la situazione pare evolvere in senso negativo per gli attori: Catania teatro Metropolitan. Raoul Bova in coppia con Chiara Francini, in scena nello spettacolo “Due”, infastidito dal continuo squillare dei cellulari in sala tra chiamate e messaggi, ha chiesto al produttore di intervenire: “Al prossimo telefonino che sentiamo squillare in sala, interrompiamo lo spettacolo”.
Ma alla ripresa ecco l’ennesimo squillo: a quel punto nel bel mezzo del monologo della Francini, Bova infastiditissimo esce di scena lasciando la sua compagna di palcoscenico da sola a guardare dietro le quinte per capire come andare avanti. Si chiude il sipario e di nuovo la produzione col pubblico: “Chi non è capace di spegnere il cellulare resti a casa”.
Gente che inizia ad andare via, spettatori che protestano perchè erano rimasti con il cellulare spento. Il sipario si riapre dopo un po’, gli applausi di incoraggiamento di quelli rimasti, con gli ultimi 10 minuti della piéce, e alla fine Bova, alteratissimo, che prima si presenta al pubblico per gli applausi prendendo per mano la Francini, e poi la lascia, per non uscire più.

Insomma, la situazione è chiara: la società sta sviluppando una dipendenza dal dispositivo mobile e una diffusa tolleranza verso il suo uso in qualsiasi contesto, anche dove il buonsenso fino a qualche tempo fa avrebbe suggerito il suo spegnimento.
Gli inglesi li chiamano phone junkies, quelli che proprio del telefono non riescono a fare a meno. Tanto che proprio per loro, iniziano ad essere progettate performance in cui il cellulare invece che spegnersi si deve tenere acceso.

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Foto: Alamy

Alcuni teatri hanno fatto scelte radicali, come l’Elfo Puccini di Milano che di fatto ha schermato alcune sale alla ricezione del segnale telefonico, e nel 2015 Microsoft parlava dell’invenzione per i suoi cellulari di una modalità “Inconspicuous” che potrebbe tradursi con “discreta”, ovvero tale da non rendersi visibile (inventata da
Naftolin e Jordan). Praticamente il telefono si accorge, incrociando i dati sulla luminosità dell’ambiente con la geolocalizzazione, che sei nella sala cinematografica o a teatro, e di fatto attiva la bassa illuminazione dello schermo e la disattivazione dei suoni.
Certo, a volte gli smarphone sono capaci di un’ironia involontaria colossale quanto tragica, come quando proprio a me capitò di silenziare senza spegnere il cellulare durante uno spettacolo di Fibre Parallele in scena a Milano, e nel bel mezzo di una loro tirata in dialetto pugliese, mi si attivò in tasca il sistema di riconoscimento vocale.
Mentre la Lanera parlava in barese stretto nella sala risuonò in voce metallica: “Scusa, non ho capito quello che hai detto, puoi ripetere?”. Un tempismo davvero teatrale.

Ma basta la cosiddetta “modalità discreta” per non disturbare gli altri (e noi stessi, come vedremo)?
Qui ci viene in aiuto la Scienza.
C’è dibattito tra i ricercatori che studiano l’impatto dell’utilizzo dei dispositivi mobili mentre si fa altro sul funzionamento del cervello e la concentrazione: è il cosiddetto multitasking.
Da anni i risultati mostrano ciò che la maggior parte di noi già sa senza bisogno di grandi studi scientifici: se si fanno due cose contemporaneamente, entrambi gli sforzi soffrono di bassa resa. Anzi, la definizione di multitasking è ormai impropria, perchè nel loro ordinario utilizzo fuori dal teatro, in quel sistema di lavoro, vita personale, consultazione del profilo Facebook, della posta elettronica, di Whatsapp e via dicendo, siamo in quella che ormai viene definita dagli studiosi “commutazione rapida tra attività” che ci impegna in un costante cambio di contesto. Regola base di economia, ma vorremmo dire anche della fisica, è che ogni passaggio di stato, ogni cambiamento, comporta costi.
Ma quanto costa alla nostra mente cambiare e spostare l’attenzione da Shakespeare al gruppo degli amici di Whatsapp che ti chiede quando esci da teatro, o vedere quanti like ha avuto il tuo ultimo post, mentre Jarrett suona? Al di là del rischio che Jarrett o Servillo se ne accorgano ed interrompano lo spettacolo perchè infastiditi, questa cosa ha un costo per noi che sta diventando sempre maggiore, ancorchè non facilmente misurabile.

Con riferimento al contesto lavorativo, ci sono stati alcuni sforzi per determinarlo: in alcuni suoi studi Gloria Mark dell’Università della California, Irvine, ha scoperto che un impiegato nello svolgimento tipico delle sue funzioni può beneficiare nella migliore delle ipotesi, al massimo di 11 minuti di concentrazione continuativa senza essere interrotto dalla nuvola delle distrazioni, e che poi in media occorrono 25 minuti per tornare all’attività originale dopo un interruzione. La studiosa ha dimostrato che la dimensione del lavoro interrotto e delle esperienze con interruzione (si veda lo squillo a teatro mentre si recita: non dimentichiamo che l’attore in quel momento sta lavorando!) genera un accumulo di stress a fronte di una resa assai più bassa.
Il New York Times ha chiesto ad Alessandro Acquisti, professore di tecnologia dell’informazione, e allo psicologo Eyal Peer di Carnegie Mellon di progettare un esperimento per misurare la potenza cerebrale che viene dispersa quando qualcuno viene interrotto. L’esperimento di cui parla il New York Times ha effettivamente un aspetto raccapricciante, pavloviano, che dovrebbe darci molto a pensare.

Situazione: gruppo di 136 persone a cui viene chiesto di leggere un breve testo e di rispondere ad alcune domande a riguardo.
Il gruppone di 136 individui viene diviso in tre sottogruppi: uno ha semplicemente completato il test in modo lineare, lettura, domande e risposte, senza fattori di disturbo.
Agli altri due è stato detto che “avrebbero potuto essere contattati per ulteriori istruzioni” in qualsiasi momento, tramite messaggino.
bw1.jpgSono stati condotte due fasi sperimentali.
Nel primo test, il secondo e il terzo gruppo sono stati interrotti due volte.
Al secondo test solo il secondo gruppo è stato interrotto. Il terzo gruppo ha atteso un’interruzione che non è mai arrivata.
I tre gruppi sono stati quindi ribattezzati rispettivamente come Control (primo gruppo), Interrupted (secondo) e On High Alert (terzo).

Ci si aspettava che il gruppo Interrupted facesse degli errori nel test di verifica sulla comprensione del testo, ma come riferisce l’articolo, i risultati sono stati davvero tristi, soprattutto per coloro che si considerano come multitasker: durante il primo test, entrambi i gruppi interrotti hanno risposto esattamente con una resa del 20% inferiore rispetto ai membri del gruppo Control.
In sintesi: la distrazione data da un’interruzione, di per se stessa, unita al cervello che si prepara a quell’interruzione, ha reso i candidati più stupidi del 20%. È quanto basta, fanno notare gli studiosi, per trasformare uno studente buono in uno insufficiente.
Ma la parte interessante, anche ai fini del nostro ragionamento sul cellulare a teatro (o a cinema, o dovunque altro lo teniamo acceso), arriva con il test 2. Anche in questo caso, il gruppo Interrotto ha sottoperformato rispetto al gruppo di Controllo, ma questa volta, al secondo giro, ha ridotto significativamente il divario, peggiore “solo” del 14%. Gli studiosi hanno rilevato che ciò suggerisce che le persone che subiscono un’interruzione e se ne aspettano un’altra, possono imparare a migliorare il loro modo di affrontarle.

Ma nel test 2 ecco un’altra sorpresa, questa volta nel gruppo Alert, il terzo. Costoro erano stati avvertiti di un’interruzione che però non è arrivata. Ci si sarebbe aspettati un risultato comunque negativo e invece sono andati meglio del gruppo di Controllo. Come a dire, vado a teatro, mi aspetto che quel cretino del vicino abbia lasciato il cellulare acceso, anzi lo so, ne sono certo, l’ho pure visto che lo metteva in borsa senza spegnerlo; risultato: se nessuno lo chiama ma so che potrebbe essere chiamato, il mio cervello per difendersi dalla possibile “rottura” di concentrazione, si concentra ancora di più. Più di chi sta attento normalmente, come se ci fosse a disposizione un ulteriore potere del cervello per proteggersi dall’interruzione, o forse il rischio di potenziale interruzione è servito a concentrarsi ancora meglio.

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Clifford Nass

Nel 2013, quindi un po’ prima della diffusione colossale delle app di socializzazione cui stiamo assistendo, ma quando il fenomeno era chiarissimo ormai nella sua dinamica,  ci ha lasciati a soli 55 anni Clifford Nass, sociologo docente a Stanford, fra le massime autorità negli studi dell’interazione uomo-macchina.
Nass aveva studiato matematica e lavorò allo sviluppo di microchip per la Intel, prima di scegliere di dedicarsi alla sociologia.
A lui si deve la teoria della Media Equation, una teoria generale della comunicazione in base alla quale la gente tende a trattare i computer e gli altri media come se fossero persone reali o “luoghi” reali e non virtuali. Gli effetti di questo sulle persone, secondo i suoi studi, sono profondissimi, li portano a comportarsi e rispondere a queste esperienze in modi inaspettati, di cui a volte sono completamente inconsapevoli. Nass aveva ribattezzato i phone junkers come “maniaci dell’irrilevante” (Suckers for Irrelevancy).
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Secondo Nass i multitaskers in realtà sviluppano abitudini mentali che rendono per loro impossibile essere focalizzati al massimo, o come diceva lui stesso “laser-focused”.
La diffusione dei dispositivi mobili in questa dimensione ossessiva e tragica, quindi, fa si che il nostro vicino di poltrona a teatro, il potenziale disturbatore che non spegne il cellulare e che davanti ad Amleto moribondo, a cui il veleno comincia ad entrare in circolo, tira fuori il cellulare per fotografarlo e postarlo su Facebook, fregandosene di tutto e tutti, in realtà lo fa perchè la sua intelligenza è ormai irrimediabilmente compromessa e crede, postandolo lì per lì, di trovarsi magari in un altro luogo, nella sua “casa Facebook” dove lo sta facendo vedere alla sorella, o al suo amico di gioventù, scambiando il reale con il virtuale. Cosicchè aveva ragione Servillo a ricordare allo spettatore di Elvira che usava il cellulare: “Qui ci sono persone vere”. Il rischio che lui avesse effettivamente sovvertito le cose è alto.
cars-and-gear-2010-01-cellphonesSi tratta in base a questa teoria, di persone che vivono in maniera ormai distorta il senso della tecnologia nella loro esistenza e contro cui, purtroppo la battaglia di Bova e di tutti gli artisti dello spettacolo dal vivo è probabilmente persa, perchè questi individui stanno subendo o hanno subito già danni cerebrali e mutazioni nel sistema neuronale che li rende ormai dipendenti e incapaci di disconnettersi, nello stesso rapporto che esiste fra fumatore e sigaretta, secondo lo studioso. E tutti in qualche forma o modo lo stiamo diventando, in nome di un’esistenza multitasking in cui reale e virtuale si confondono: si passa dalle uova da friggere messe sul fuoco, a Instagram, e poi alla mail, e intanto arriva il messaggio che devi andare a prendere i bambini da scuola, e poi di nuovo le uova che si sono stracotte mentre rispondevi ad una telefonata di lavoro, quando tiravi su la padella e con gli occhi al pc controllavi i like su Facebook.
Nass ha dimostrato che davanti a tutto questo la nostra intelligenza fallisce.
E’ forse possibile allenarsi alle distrazioni, anche se non si sa quando colpiranno. Ma nel complesso, nella somma di tutte le esperienze e del sistema di vita, l’attenzione e la comprensione del reale sono irrimedibilmente compromessi.
Dobbiamo a pensarci, e spegnere più spesso e per periodi prolungati, anche fuori dal teatro, i dannati cellulari!

Per chi vuole approfondire, linkato qui il pionieristico studio del 2009 Cognitive control in media multitaskers diEyal Ophir, Clifford NassedAnthony D. Wagner