MONICA VARRESE | La scena è buia, spoglia. Niente quinte, tutto a vista. Ci sono solo cinque grandi specchi, uno accanto all’altro. Una scena essenziale ma funzionale, quella realizzata da Vincent Longuemare per Teresa Ludovico, che propone una riscrittura in chiave contemporanea dell’Anfitrione di Plauto.
Il pubblico prende posto: c’è chi si guarda e soffoca una risata con il vicino, chi ha lo sguardo basso ma ha il volto flashato dalla luce di uno smartphone, o chi addirittura ne approfitta per ricalcare il rossetto. Lo spettacolo è già iniziato e nessuno lo sa. Dalla prima all’ultima fila, tutti si guardano allo specchio e osservano il loro ‘doppio’, motivo ricorrente nella commedia plautina e efficace espediente teatrale capace di creare situazioni comiche ed esilaranti.
E pensare che nel Novecento basterà un naso leggermente storto a farci andare su di giri.
L’Amphitruo è la commedia dei simillimi per antonomasia, in cui due personaggi, identici come due gocce d’acqua, creano tutta una serie di divertenti equivoci. In questa fabula i simillimi sono quattro: Giove-Anfitrione (un versatile Giovanni Serratore) e Mercurio-Sosia, interpretato dall’istrionico Alessandro Lussiana. In questi ruoli è evidente il rimando a Puck e Oberon di Sogno d’una notte di mezza estate. Il Dio Mercurio, messaggero degli Dei in abiti succinti e tacchi fluo, nel prologo incanta e conduce gli spettatori all’interno dell’intrigo.
Giove desidera Alcmena e riesce a sedurla prendendo l’aspetto del marito Anfitrione, che sta guidando l’esercito in guerra. In questa versione, ambientata a Napoli nei giorni nostri, gli eserciti nemici diventano clan malavitosi che, a colpi di pistola e a suon di minacce, cercano di mantenere una posizione di potere all’interno della famiglia, condicio sine qua il rispetto dei clan rivali viene meno. Questo gioco sulle dinamiche di potere all’interno di un microcosmo come l’organizzazione criminale, viene raccontato in una scena/prequel non riconducibile ad alcuna versione antecedente, ma presente nella mitologia greca: Anfitrione (l’energico Michele Schiano di Cola) uccide Elettrione, il padre di Alcmena (una centrata Irene Grasso), e quest’ultima accetta di sposarlo a patto che vendichi i suoi fratelli, vittime di una faida familiare.
Nel rispetto delle simmetrie teatrali, anche Mercurio prende le sembianze di Sosia, servo fedele di Anfitrione (il bravissimo Michele Cipriani). Bromia, la serva di Alcmena interpretata dalla generosa e coraggiosa Nuvoletta Lucarelli, che sostituisce Demi Licata, prende più spazio rispetto alla versione plautina, così come avviene nella ripresa molieriana, da cui la regista ha tratto ulteriore spunto per l’evoluzione del ruolo.
Tanti sono i riferimenti da cui la scrittura drammaturgica è attraversata: da Shakespeare a Molière fino ad arrivare al tormentone filo-gomorriano “sta senza pensier” o alle canzoni neomelodiche che fanno baccano nel mondo degli umani. Singolare e emozionante il lavoro del musicista Michele Jamil Marzella, che gioca il ruolo della Notte (fedele alla riscrittura di Molière). Egli è in ascolto continuo con la scena e i suoi cambi mediante l’uso di due strumenti: il radong (una lunga tuba tibetana) che crea le atmosfere sospese del mondo degli Dei, in forte contrapposizione con quello degli uomini, rappresentato dal suono scuro e contaminato del trombone. Le luci di Vincent Longuemare creano spazi onirici, dove i personaggi diventano ombre che vagano in una notte perenne.
Nella riscrittura della Ludovico il tema del doppio, pur declinandosi in tutti i personaggi, viene interrotto nel suo processo da un tipo di comicità che, oltre a rompere il ritmo serrato della commedia, non consente alle tante e molteplici sfumature dei ruoli di venire fuori. Un piccolo ma tiepido tentativo lo si percepisce nella scena in cui Anfitrione racconta la sua infanzia: gli abbracci della madre e le accuse del padre, che lo invita a non compromettere l’immagine da “uomo d’onore”. Questa parte, che sfocia nell’invocazione al figlio che nascerà, viene bruscamente interrotta dalla realtà che entra con troppa violenza (la chiamata di Giove che inizialmente si finge operatore di call center), non facendo emergere aspetti meno comici, ma non meno importanti, come il terrore di smarrire la propria identità e di vivere in un conflitto irrisolvibile tra i diversi aspetti della propria personalità. Sofferenze e paure che non dovrebbero essere eliminate, piuttosto “illuminate” attraverso un’analisi della scena che consenta allo spettatore di cogliere la complessità del ruolo: affinità, differenze, consonanze e dissonanze. Sarà lo stesso Plauto, nel prologo affidato a Mercurio, a coniare il termine tragicommedia, intendendo l’assimilazione di elementi tragici in un tessuto comico.
Nonostante l’obiettivo primario di Plauto fosse il risum movere, “scatenare la risata” senza alcun fine moralistico, è chiaro che in questa riscrittura il tentativo di mirare altrove c’è (e va bene), ma non viene portato fino in fondo. La misura del pop con cui il classico viene approcciato supera il muro dello straniamento per proporsi in una dimensione estrema che, per dirla con Pirandello nel saggio sull’umorismo, rende invisibile il sentimento del contrario: il fondo dolente, di umana sofferenza che riflette un mondo frantumato, contraddittorio, al limite dell’assurdo.
“Chi sono io se non sono io? Quando guardo il mio uguale a me, vedo il mio aspetto, tale e quale, non c’è nulla di più simile a me! Io sono quello che sono sempre stato? Dov’è che sono morto? Dove l’ho perduta la mia persona? Il mio me può essere che io l’abbia lasciato? Che io mi sia dimenticato? Chi è più disgraziato di me? Nessuno mi riconosce più e tutti mi sbeffeggiano a piacere. Non so più chi sono!”
In questo mondo in cui l’io si sdoppia e si disgrega in una serie di frammenti incoerenti, qualcosa di più incisivo verrà fuori dal riso, la solitudine del singolo che si scopre «nessuno»: Bromia/Cleante alla ricerca di un amore che le viene negato, Sosia che ha perso sé stesso, l’onore di Alcmena messo in discussione e l’invincibile Anfitrione, che insieme alla sua identità, perde progressivamente anche il suo potere, fino a ridursi “uomo di niente”.
ANFITRIONE
scrittura, ideazione e regia di Teresa Ludovico
con Michele Cipriani, Irene Grasso, Nuvoletta Lucarelli, Alessandro Lussiana, Michele Schiano di Cola, Giovanni Serratore
musiche Michele Jamil Marzella
coreografie Elisabetta Di Terlizzi
costumi Teresa Ludovico e Cristina Bari
spazio scenico e luci Vincent Longuemare
foto di scena Valentina Pavone
Teatro Kismet, Bari
17 marzo 2018