ALICE CAPOZZA | Un ardito adattamento teatrale del romanzo di Dostoevskij Delitto e Castigo quello del giovane regista russo Konstantin Bogolomov per ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione: dirige un ottimo cast tutto italiano, un’operazione culturale di contaminazione della scena nostrana, già tentata in passato da ERT con le regie di Nekrosius e Hermanis, fino a questo discusso Delitto e Castigo con scelte drammaturgiche e sceniche che hanno provocato numerose polemiche, perfino accuse di blasfemia e inviti alla censura.
Lo spettacolo, dopo il debutto nella regione di produzione è stato in scena al Teatro Metastasio di Prato e prosegue la tournèe ad aprile a Roma al Teatro Argentina e Milano all’Elfo Puccini. Nonostante parte del pubblico pratese esca in effetti perplesso per i molti stimoli e provocazioni che arrivano dalla scena, lo spettacolo nel complesso regge, pur lasciando aperti molti interrogativi, e le due ore senza intervallo scorrono soprattutto grazie all’apprezzabile prova degli attori tra cui spiccano le interpretazioni di Enzo Vetrano (Lizaveta e Marmeladov), insieme a Renata Palminiello (Svidrigailov), Paolo Musio (Porfirij Petrovic) e Marco Cacciola (Nikolka), oltre a Leonardo Lidi, nel ruolo del protagonista Raskol’nikov, Diana Höbel (Alena Ivanovna, Sonja Marmeladova), Anna Amadori (Pulcherija Raskolnikova), Margherita Laterza (Dunja Raskolnikova).
La scena si presenta arredata in stile anni Cinquanta, con al centro uno scarno divano e due poltrone, oltre a quattro schermi e una telecamera (che ci hanno inizialmente incuriositi, ma a dire il vero poi decisamente sotto utilizzati). Le luci, praticamente fisse, illuminano potentemente la scena, rendendola più simile ad un set televisivo che ad una performance di teatro contemporaneo, quasi fosse una sitcom americana, scelta visiva che certo marca fin da subito la distanza dalle atmosfere nebbiose e cupe che pervadono il romanzo.
Il dialogo con il nostro tempo è confermato fin dall’inizio della recita, che segna anche una profonda distanza dal senso morale, e forse moralistico, presente nel romanzo originale: i personaggi si presentano al pubblico, prima ancora di sapere chi rappresentino nella trama, in una successione di azioni senza battute degna di un triller americano ambientato nel Bronx piuttosto che a Pietroburgo. Marchette, prostitute, una vecchia con gli occhiali da sole, una giovane donna di colore vestita con un’aderente tuta di pelle nera che spara ad un manichino, il tutto accompagnato dalle indiavolate note pop rock di Life is Fantastic, in netta contrapposizione con la vicenda lenta e carica di filosofia dove l’unica via di salvezza passa da pentimento, sofferenza e tormento umano, che pervadono la pagine di Dostoevskij.
Gli elementi scenici più legati al contemporaneo come la telecamera e gli schermi però non trovano nello svolgimento un utilizzo che ne avrebbe invece amplificato il significato: sui video compaiono solo quattro volte delle scritte ironiche o con riferimenti alle scene; Porfirij incontra per la prima volta Raskol’nikov in video come fosse in un collegamento skype; e Marmeladov guarda una spirale ipnotica sullo schermo rifendosi alla figlia Sonja costretta a prostituirsi; ma avrebbe avuto senso forse che l’elemento iconico tanto invadente nella contemporaneità fosse maggiormente posto al servizio delle scelte registiche. La telecamera, ad esempio, poteva avere un rimando voyeuristico interessante nell’intimità dei disperati protagonisti, invece è utilizzata quasi di sfuggita da Raskol’nikov nel suo incontro con Sonja, e da Porfirij, che inquadra la defunta Alena Ivanovna, suggerendo il ridicolo indizio per smarcherare l’omicidio: la Nutella sulle labbra, dolce e scura come il nero africano che l’ha uccisa; il riferimento alla Nutella per altro ci sfugge.
Anche la scena ambientata in una precisa epoca del passato non trova ulteriori conferme nel resto dell’allestimento, nient’altro richiama questa scelta scenica. I costumi ad esempio non si legano affatto a questo riferimento temporale, ma sono moderni e quotidiani, non particolarmente curati, la madre e la sorella di origini africane hanno colorati abiti tradizionali, Raskol’nikov indossa una maglietta (che dopo l’omicidio cambia con un significato un po’ banale in una maglietta rosso-assassino), jeans e scarpe da ginnastica: scelte dichiaratamente posticce, come il far indossare delle corone ad Alena Ivanovna e a Svidrigailov, per simboleggiare il potere che incarnano, oppure la pancia incinta di Lizaveta, intepretata da Vetrano, evidentemente non naturalistica.
L’intenzione di dissacrare il capolavoro della letteratura russa è in parte riuscito nelle scelte sceniche più azzardate. Raskol’nikov è rappresentato come un giovane apatico e amorale africano, immigrato, che uccide la vecchia strozzina senza motivo e senza il tormento prima e dopo, che accompagna invece il suo omonimo nel romanzo. La madre e la sorella dalle gelide steppe aride delle campagne russe sono catapultate nel mondo consumistico e materialista, ballano LaBomba e quando il ragazzo dà loro i soldi del colpevole bottino entrano mostrando cariche buste OVS.
Lo stesso omicidio, nonostante le battute restino fedeli all’originale (cosa che ne amplifica il divertente paradosso) viene abbinato ad una vistosa fellazio della vecchia usuraia al giovane Raskol’nikov che la massacra con la scure mentre lei è inginocchiata davanti a lui. La scena recitata con coerente distacco meccanico dagli attori coinvolti, è senza dubbio forte, tanto da indurre a soli quindici minuti dall’inizio una signora accanto a noi a lasciare indignata la sala, anche se avrebbe potuto lasciare allo spettacolo almeno il beneficio del dubbio ed aspettare per andarsene. Almeno fino a vedere il giudice istruttore sedurre palesemente il protagonista accompagnato dalla scritta sugli schermi “A Ponzio Pilato faceva male la testa. A Porfirij Petrovic faceva male il culo” proponendogli alla fine indulgenza in cambio di prestazioni sessuali, profanando anche la citazione di Bulgakov. Oppure la confessione di Rakol’nikov a Sonja intervallata dagli inequivocabili gemiti di un amplesso; il prepotente Svidrigailov strupratore della indifesa Dunja intepretato da una donna dai tratti caratteriali mascolini o la preghiera della santa puttana Sonja accovacciata ai piedi dell’imponente manichino Cristo che scende sulla scena, mostrando al pubblico le terga scoperte.
Fa sorridere, a pensarci, l’incolpevole significato del cognome del regista russo, accusato di blasfemia: Bogomolov può essere tradotto in italiano con Pregadio.
Certamente è uno spettacolo che vuole scuotere o scandalizzare il classico “pubblico benpensante”, quello che cerca in una rappresentazione di un classico la rassicurante atmosfera romantica e diffida di operazioni radicali come questa, che violentando un testo della tradizione tenti di restituirne la grandezza e la contemporaneità nel suo significato forse più profondo.
Le dissacranti provocazioni, anche se azzardate, a volte gratuite o magari con riferimenti simbolici non immediatamente ricondicibili a Delitto e Castigo, sono in fin dei conti divertenti nel loro essere palesemente eccessive e possono di per sè reggere persino un confronto di senso con l’originale, distanziandosene proprio con la grande forza ironica.
Va detto, peraltro, che l’adattamento registico non rinuncia a rendere omaggio al sacro Dostoevskij e porta in scena le parole più dolorose del romanzo, affidandole ai monologhi di maggiore intensità emotiva dei vari personaggi.
Bogomolov conoscitore profondo di Delitto e Castigo, senza dubbio più del pubblico astante, fa a pezzi l’originale ricomponendolo con le sue stesse parole, nella storia di fallimento e dipendenza di Marmeladov schiavo dell’alcool, vittima impotente di se stesso; nelle graffianti parole del falso reo confesso Nikolka, rinchiuso nell’aspetto di uno storpio ma con la delicatezza di un bambino nell’animo dell’idiota; nella discesa agli inferi della strada di Sonja; nel desiderio di dolcezza femminile del violento Svidrigailov, che confessa nell’incontro con Raskol’nikov; nella scena finale in cui Dunja si trova faccia a faccia col proprio stupratore Svidrigailov, la cui asperità non è altro che il risultato interiore dell’afflizione del potente.
Compare con loro il grande autore, l’incedere lento del romanzo, la cupezza dell’atmosfere e la pena per le vittime, piene di sentimento, condannate nelle vicende della vita ma cariche di perdono: Marmeladov esce di scena dopo il suo toccante monologo recitando il Padre Nostro. E stavolta la provocazione non c’è, ma c’è devozione per la forza delle parole originali. Nei monologhi avulsi dallo scorrere della trama, il trasporto emotivo dei personaggi come Marmeladov, Nikolka e Svidrigailov, attraverso l’espediente di rivolgersi direttamente allo spettatore è tale da farci dimenticare le provocazioni, e renderci soldali con i drammi personali, il senso di colpa e quella oscurità interiore che pervade il romanzo.
Il massacro ideologico e a tratti quasi di vituperio dell’originale che il regista propone, con una cifra apparentemente superficiale, mantiene poi, invece, la forza coracea indistruttibile dei temi che Dostoevskij propone nel romanzo: è la parola dello scrittore che continua a vibrare nel nostro tempo, in un dialogo con il presente che Bogomolov sceglie di rappresentare attraverso le provocazioni consumistiche di Pulcherija e Dunja Raskolnikova, che non si distanziano dal desiderio di accasare la sorella al potente di turno per il bene del figlio maschio che troviamo nei personaggi originali, come anche nel sacro fuoco martire di Sonja, così ostentato e superficiale da risultare ridicolo, ma forse molto verosimile nella società contemporanea, che fa del fanatismo religioso una via di salvezza eterna.
Restano fuori da questa intimità con lo spettatore le figure di Raskol’nikov, della madre e della sorella, come se il regista avesse voluto negare loro la possibilità di un percorso di pentimento e redenzione che invece è nel tracciato originale: forse che per i miseri di oggi non c’è alcuna salvezza?
A Dunja è affidato il cruento racconto di una scena di strada, in cui è frustata con violenza una vecchia cavalla che non ha più la forza di trascinare la carrozza, e sugli schermi appare la scritta Dunja legge il vangelo degli animali. La scena richiama l’apice del percorso colpevolistico di Raskol’nikov, quando Sonja gli legge il Vangelo, momento di vicinanza cristiana che lo accompagna all’ammissione della propria colpa, che pur non ha la potenza evocativa che forse avrebbe voluto suscitare, ma porta ugualmente lo spettatore a pensare che quell’animale frustato è proprio l’uomo contemporaneo, a cui il Vangelo non parla più.
Bogomolov parte dal cinico assunto che «il dubbio se sia giusto o meno uccidere, non è più un argomento così attuale» perché al delitto non consegue più necessariamente il castigo o la pena ma, nella lotta tra la sprezzante riscrittura drammaturgica del giovane regista russo e il lento e “anacronistico” scrittore ottocentesco (come lo definisce il regista), vince il secondo che appassiona e coinvolge, vincono gli attori che riescono in frammenti di trama ad emozionare.
“Tutto e convenzionale, tutto è relativo, tutto non è altro che forma”
Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo, parte seconda, capitolo 1
Delitto e Castigo
di Fëdor Dostoevskij
adattamento e regia Konstantin Bogomolov
traduzione Emanuela Guercetti (Giulio Einaudi Editore)
con Anna Amadori, Marco Cacciola, Diana Höbel, Margherita Laterza, Leonardo Lidi, Paolo Musio, Renata Palminiello, Enzo Vetrano
scene e costumi Larisa Lomakina
luci Tommaso Checcucci
assistente alla drammaturgia Yana Arkova
assistenti alla regia Teodoro Bonci del Bene e Mila Vanzini
produzione ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione
Teatro Metastasio
Prato
Domenica 18 marzo 2018