RENZO FRANCABANDERA | Il Desiderio segreto dei fossili è tornato a Milano nella (bella) stagione di Campo Teatrale, dopo esser stato rappresentato a Novembre 2017  al Museo di Storia Naturale.

unnamed.jpgIl nuovo esito della compagnia creata nel 2009 da Luciana Maniaci e Francesco d’Amore, vede in scena, oltre ai due fondatori che danno il nome al sodalizio, anche  David Meden, finalmente liberatosi dalle faccende freudiane al Piccolo Teatro di Milano, dove ha ben figurato.
La vicenda creativa de “Il desiderio segreto…” discende, ma di fatto si separa, dal filone principale della ricerca drammaturgico-scenica finora percorsa dal duo, per fare un passo avanti significativo nel senso dell’assurdo. Finora Maniaci e d’Amore avevano ragionato eminentemente sui legami interpersonali, con particolare attenzione al tema della coppia, con lavori la cui cifra era sempre un parossismo testuale e recitativo, con affaccio satirico su interno sociale. Come un cortiletto di caseggiato da cui si sbircia un po’ come va il mondo, spiando le abitudini di quelli delle case vicine.

Anche qui l’ispirazione di partenza non pare diversa, e si basa sull’uso di una sineddoche socio-rappresentativa: in parole povere, vengono presi due animali del branco, che sono indicativi di tutta la popolazione osservata, un campione statistico.
Nella fattispecie si tratta di un branco di 73 esseri umani, vittime della loro strana normalità, che vivono in un paesino immaginario in cui non succede nulla. L’escamotage drammaturgico ricorda un po’ quello de Le intermittenze della morte di Saramago in cui in un non meglio identificato paese, allo scoccare della mezzanotte di un 31 dicembre, la morte dichiara di iniziare uno sciopero e s’instaura l’eternità, perché nessuno muore più. Nel libro l’avvenimento suscita dapprima giubilo nella popolazione ma ben presto fa emergere le contraddizioni di quello che viene chiamato lo steady state, ovvero nella teoria dei sistemi, quello stato del processo o del sistema in cui le variabili che definiscono il comportamento di quel processo o sistema appunto sono invariabili nel tempo.
Nel paese di Saramago, dopo sette mesi di “tregua unilaterale”, con una missiva indirizzata ai mezzi di comunicazione, la morte dichiara di interrompere quel suo “sciopero” e di riprendere il proprio impegno con l’umanità.
A Petronia, invece, il paese fossilizzato e oramai privato persino dell’elemento vitale di base, l’acqua, pare non succedere proprio nulla: tutto resta cristallizzato.
Le gravidanze, come quella che porta avanti Pania (Luciana Maniaci), durano in eterno, e così anche le intenzioni suicide di sua sorella Amita (un Francesco d’Amore notevole, en travesti) non trovano mai esito. Tutto procede senza evolvere. Tutti gli uomini lavorano come spaccapietre. Tutte le donne sposano spaccapietre, in un eterno  anelito di progresso sociale di cui è proiezione l’elemento massmediatico raccapricciante ideato nella drammaturgia, una sempiterna serie tv arrivata all’ottantesimoepassa anno di repliche, in cui  si narrano le vicende dell’amore tempestoso tra Johnny Water (un David Meden volutamente poco divo) e Roses (la Maniaci, in doppio ruolo).

madonna del parto
Piero della Francesca – Madonna del Parto

Succede però che Amita rompe gli schemi e sfida il destino immutabile che la vuole sposa di spaccapietre e si innamora del protagonista della serie tv.
Si innamora forte, forte. Ma così forte che alla fine ci riesce e rompe la foresta pietrificata e fossilizzata di queste esistenze.
Potenza “dell’ammmòre”, tutto si sblocca: alla statuaria Pania si rompono finalmente le acque, lei che per lungo tempo assume la posa della Madonna  del Parto di Piero, come cristallizzata in un quadro di cui peraltro la Maniaci imita a più riprese la postura in scena, con la mano ad indicare la fenditura nel vestito in identica tinta blu.

L’acqua che in questo paese non sgorgava da chissà quando, torna a fluire: è quella dell’imminente parto, l’arrivo di un elemento vitale che rompe l’universo cristallizzato, il vortice di nulla, di ripetizione, in cui i personaggi sono cristallizzati in maschere di se stessi, la cui efficacia drammaturgica è interessante non meno della resa scenica che, prediligendo il senso immane del vuoto, non si basa su altro. I segni sul palcoscenico sono pochissimi e di interessante traslazione semantica.
Più riuscita la prima parte che la seconda, dove il finale risulta un po’ slegato e non preparato,  sebbene di impatto emotivo sul pubblico. Insomma va studiata meglio la parte finale “del tuffo”, su cui sicuramente maggiori sono stati i tribolamenti in fase di scrittura.
Resta il segno di un’operazione coraggiosa, originale, e che non trova nelle proposte delle generazioni più giovani nulla di comparabile, rinnovando una tradizione di caustico cinismo che in Italia ha diversi interpreti interessanti, e con cifre stilistiche molto personali, da Rezza a Cosentino, da Scaldati a Scimone/Sframeli.
Il passo di Maniaci e d’Amore va in questa direzione ed ha i crismi di una pietra fondante per un percorso che, dopo alcuni passi di sondaggio e familiarità con gli strumenti della scena da parte dei due autori/interpreti, arriva ad un primo significativo traguardo intermedio, non ancora perfetto  nell’elaborazione del mix testo/scena, ma che su tutti e due i fronti raggiunge un’originalità e crea una consistente e ragionevole aspettativa: andremo sicuramente a vedere le carte al prossimo giro.

spaccapietre-696x433
Gustave Courbet – gli spaccapietre – distrutto a Dresda nel 1945

IL DESIDERIO SEGRETO DEI FOSSILI

Regia e drammaturgia Francesco d’Amore e Luciana Maniaci
Con Francesco d’Amore, Luciana Maniaci e David Meden
Una produzione Maniaci d’Amore/I Teatri del Sacro