ILENA AMBROSIO | È possibile, nel lavoro di rilettura di un’opera, restare fedeli all’originale e, nello stesso tempo, stravolgerlo? È possibile scalare le spalle dei giganti che sono i nostri autori di riferimento con la consapevolezza di restare, rispetto a loro, nani ma, insieme, sfruttando il vantaggio di una visuale, quanto meno cronologica, più elevata?
Viene da chiederselo assistendo a Tre. Le sorelle Prozorov, l’ultimo lavoro di Giovanni Meola, drammaturgo, sceneggiatore e regista, teatrale e cinematografico e fondatore e direttore della compagnia indipendente Virus Teatrali.
Nel descrivere uno spettacolo, il più delle volte, risulta utile partire dalla scena, fornire al lettore il contenitore visivo nel quale inserire le informazioni. In questo caso, invece, il dato iniziale non può che essere il cast: tre attrici, Roberta Astuti, Sara Missaglia, Chiara Vitiello, rispettivamente le Irina, Olga e Maša di Cechov. La storia è la medesima: tre sorelle insoddisfatte della propria vita, che agognano il ritorno nella cara Mosca lasciata anni prima; con loro il fratello Andrej, un tempo brillante e promettente e poi inetto, giocatore, succube di una moglie volgare e snob; con loro la serie di figure militari che frequentano casa Prozorov.
Nel lavoro di Meola, però, la centralità delle tre ragazze non è data solo dall’essere protagoniste ma, soprattutto, dall’interpretare, a turno, tutti i personaggi del dramma. In uno spazio vuoto il corpo di queste straordinarie interpreti si prende carico dell’intero peso scenico così come la loro psicologia dell’impianto drammaturgico.
In schiera di fronte al pubblico, con lo stesso abito bordeaux, esordiscono declamando in convinto tono marziale la prima nota di scena di Cechov; ma, nel ripeterla una seconda volta, si guardano perplesse e incerte: il salotto non c’è, neppure il sole e loro non sono per nulla vestite come descritto. Ma vanno avanti; tutto ciò che in quel dramma è la concretezza del dato scenico dovrà essere immaginato, ricostruito come in un gioco dei mimi. In questo senso, allora, la fisicità – tra l’altro diversissima ma perfettamente bilanciata – delle attrici gioca un ruolo fondamentale: sole sul palcoscenico sono, allo stesso tempo, scena e azione.
Unici espedienti tecnici la musica – un rock melodico che, a tratti, risuona bassissimo – e le luci, dirette dallo stesso regista: riflettori di tre colori diversi, si accendono nei momenti cruciali del dramma, di questo dramma, sottolineando il più delle volte, le trasformazioni d’identità delle protagoniste.
E, infatti, l’originalità del lavoro sta proprio in questo: le attrici sono perfette nei panni delle sorelle; Olga calma e affettuosa, con il continuo mal di testa causatole dal lavoro (lei dice); Maša dura e insofferente a tutto ciò che è “borghese”; la giovane e bella Irina, tenacemente attaccata alla speranza del ritorno a Mosca che si affievolisce quanto più lei diventa più stanca e vecchia.
Ma queste identità si frantumano ogni qual volta le interpreti vestono i panni degli altri personaggi del dramma, incarnandone i tratti fondamentali, mimandone i gesti, il tono della voce.
La portata psicologica della storia è tutta concentrata in loro. Esattamente psicologica se si pensa che il senso della rilettura pare consistere proprio in questo.
La drammaturgia cechoviana – in generale e quella di Tre sorelle in particolare – non è eclatante: i suoi personaggi quasi mai esplodono, i loro pensieri più profondi restano celati o, in caso contrario, dichiarati en passant tra una battuta e l’altra. Una pittura ad acquerello viene da immaginare.
Meola, invece, utilizza accesi colori a tempera: tutta l’interiorità delle tre sorelle esplode in scatti d’ira, grida, pianti. I desideri, le motivazioni sono detti apertamente e con forza.La relazione extraconiugale di Maša è raccontata tramite conturbanti balli tra lei e Veršinin così come la discreta affermazione «mi hanno fatta sposare quando avevo diciotto anni» diventa un urlo di risentimento contro le sorelle: «Me l’avete fatto sposare voi!». Olga, nel suo continuo ripetere «Io l’avrei amato mio marito», esterna tutta la sofferenza di essere sola; ancora, le avance del capitano Solenyj a Irina diventano un vero e proprio tentativo di stupro. E poi il desiderio di Mosca, ripetuto di continuo, urlato finanche.
Eppure non c’è violenza del dramma originale. C’è, piuttosto, l’esplicitazione di ciò che in esso restava sottinteso, lo svisceramento della psicologia di personaggi che restavano lì contenuti, rigorosamente “bon ton”, mentre qui, acquistano spessore e modernità – decisamente moderne anche alcune scelte lessicali – esplicitando il dramma di tre animi imprigionati in una vita che rifiutano. Di animi, sì, perché si ha la sensazione, anche, che le scelte sceniche si indirizzino altresì a una spersonalizzazione dei personaggi.
Abbiamo di fronte dei tipi umani, delle psicologie esposte, potremmo dire; le sorelle, con i loro abiti perfettamente identici, non sono più Olga, Maša, Irina ma donne, persone che incarnano il dramma di una vita insoddisfacente, costantemente protesa al futuro – quello sul quale filosofeggia continuamente il Veršinin di Cechov – perché solo in esso si intravede, ma non sino alla fine, una speranza.
Il messaggio del dramma di Cechov è preservato, ma reso più complesso, quasi caleidoscopico, da scelte sceniche e drammaturgiche che risultano efficaci proprio nel loro essere moderne, nel loro esasperare i toni, i gesti, le azioni e le reazioni.
E allora, tornando all’interrogativo di apertura, sì, questa rilettura di Tre sorelle è capace di fedeltà ma anche di cambiamento e, anzi, proprio in questo vanno rintracciati il suo valore e la sua ricchezza.
TRE. LE SORELLE PROZOROV
liberamente tratto da ‘Tre Sorelle’ di Anton Cechov
Un progetto di | adattamento | regia
GIOVANNI MEOLA
drammaturgia collettiva
con:
ROBERTA ASTUTI
SARA MISSAGLIA
CHIARA VITIELLO
ass.te alla regia: ANNALISA MIELE
foto di scena: NINA BORRELLI
Centro Teatro Spazio – San Giorgio a Cremano (NA)
17 – 18 marzo 2018