RENZO FRANCABANDERA | Mi ricordo che mi disse che alla fine si era tolta il telefono fisso da casa, perchè lo squillo del telefono aveva iniziato a farla impazzire. Lei era una signora bella, una sessantenne che a guardarla non avresti detto. Ma poi ci parlavi, si iniziava ad aprire, e scoprivi la voragine di una vita vissuta con il dramma di un figlio bruciato, una “testa di legno” come li chiama Livia Gionfrida.
Fino a quella notte.
Quando fu svegliata dal suono del telefono fisso. Che le diede la notizia terribile.

Gioia” è il modo con cui Maria (un nome non casuale di cui subito ci viene definito l’inequivoco rimando) chiama suo figlio, un figlio diventato per le sue scelte di vita motivo per lei di grande sofferenza.

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Nato dalla oramai decennale esperienza e pratica di teatro dentro le mura del carcere di Prato con Metropopolare (associazione teatrale di cui Gionfrida è stata promotrice anni fa) Gioia trae suggestione da questo rapporto innaturale fra la madre, che sempre vorrebbe il meglio per il proprio figlio, e le personalità borderline, condannate ad una vita “altra”, dei detenuti, che tuttavia a detta della regista-interprete danno al rapporto con la madre un’intensità simbolica di calibro assoluto, quasi sacrale.
Di qui il passo è breve per mettere assieme il tema della iconica Pietà cristiana, la suggestione del Pinocchio (si affaccia anche Carmelo Bene qui e lì) con la fata, e il destino di queste madri, a volte senza mezzi culturali ed economici, che devono anche sopportare non di rado il maltrattamento dei figli dentro le mura del carcere.

In uno spettacolo costruito solo di recitazione e videoproiezione, la bellezza è che questa amalgama viene solo accennata nei suoi punti più densi, senza diventare mai elemento saliente e portante di una drammaturgia divisa in scene, come una via crucis al contrario, in cui è la madre a portare la croce. E la croce addirittura diventa personaggio, si vivifica, e abbraccia la madre, in una dimensione per cui il genitore accompagna il figlio nel supplizio senza poterlo alleviare. Tornano in mente anche la cronaca con i casi Aldrovandi, Cucchi, il tema del genitore e del figlio violato, il rapporto col potere, ma senza che mai questo sposti l’asse del sentire scenico da quello del lamento, i lai testoriani, riportati qui nella naturalezza del dialetto siciliano, lingua madre della interprete. Rimando all’antico ribadito anche dai passi di Donna de Paradiso di Jacopone da Todi di cui riverberano le parole, l’appiglio che il dolore non permette.

Livia Gionfrida_ph Guido Mencari
foto Guido Mencari

Anche per necessità contingenti. la ricerca è quella di un teatro dai segni antropologici molto netti e con caratteristiche di leggibilità e di pratica che rimandano alla tradizione del teatro povero; Gionfrida riesce a costruire un lavoro da Mater dolorosa, di struggente sincerità.
Il prologo evoca la finzione del teatro e quasi brechtianamente l’interprete interrompe di tanto in tanto i sussulti emotivi, per ricondurre alla ragione dell’equilibrio fra vero e falso in scena: l’operazione ha moltissimi pregi, che non si esauriscono nelle belle scene e animazioni firmate da Alice Mangano, nei dipinti di Nicola Console, e nel disegno luci di Roberto Innocenti, rivelando anche lo spirito di squadra che da sempre ha Metropopolare.
Gioia ci parla anche di quello che non capiamo, di quello che non vogliamo capire.
Usa il dialetto con un doppio fine: metterci di fronte a quell’universo rispetto al quale, a volte per diffidenza, a volte per condizione, abbiamo una barriera comunicativa all’ingresso.
E come sempre, in questi casi, dobbiamo operare le scelta se sforzarci di voler comprendere o meno. E già solo in questo sottile ma interessante gioco, sta una sfida che bene ha fatto Franco D’Ippolito alla direzione artistica del Teatro Metastasio a raccogliere, proponendo Gioia al suo debutto al Teatro Fabbrichino.
Entrare fra le mura in cui sono rinchiuse le fragilità è sempre una questione di scelta, per chi non vi è “costretto” da biologia ed amore, come una madre.

 

GIOIA
via crucis per simulacri
drammaturgia e regia Livia Gionfrida
scene e animazioni Alice Mangano
dipinti Nicola Console, luci Roberto Innocenti
musiche e suoni Andrea Franchi, assistente alla regia Giulia Aiazzi
con Livia Gionfrida

produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Teatro Metropopolare