MONICA VARRESE |Parli, pensi e sogni in due lingue, ma con nessuna delle due sei a casa.
Alev Tekinay, scrittrice turca emigrata in Germania, la chiama Dazwischen (nel mezzo), quella fragile sensazione di non appartenenza vissuta da molti Fremde (stranieri), costretti a lasciare la loro patria in cerca di una prospettiva di vita migliore.

Sono stati tanti gli scrittori del Novecento costretti a vivere “nel mezzo”, tra due mondi e due lingue, una madre e una matrigna. Due madri snaturate.
Tra questi Agota Kristof, protagonista di una delle ultime produzioni della Compagnia del Sole.
Lingua Matrigna, andato in scena al Teatro Kismet di Bari per la regia di Marinella Anaclerio con Patrizia Labianca, è una storia che parte dalle mura di una casa, piena zeppa di libri, dizionari e fogli di giornale. Piena di parole.

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Foto di Patrizia Memeo

Un paio di scarpe, illuminate da un faro e posizionate in proscenio, catturano l’attenzione di chi guarda, senza essere visto. La sensazione è quella di poter varcare la soglia di una casa e sbirciare all’interno con la consapevolezza che qualcuno potrebbe entrare, all’improvviso.

Una donna vestita di nero e scalza, l’energica Patrizia Labianca, ci accoglie nella sua casa ed è una voce fuori campo a dirci che lì possiamo restarci. Il fondo della scena si anima continuamente di immagini, create dal videomaker Giuseppe Magrone, che conducono lo spettatore extra moenia, in una dimensione altra, in cui foto in bianco e nero, personaggi storici e spazi boschivi si intrecciano con simboli appartenenti alla dimensione onirica. Il disegno luci, pur creato per sostenere i cambi delle scene, suddividendo la narrazione in stanze argomentative, pare però mancare di un pensiero registico più profondo capace di dare a queste stanze atmosfere vere e proprie capaci di dialogare con il testo e la recitazione, lasciando questo ruolo all’elemento della videoproiezione. Una maggior integrazione delle luci nel tessuto drammaturgico complessivo avrebbe consentito ulteriori e più rarefatte atmosfere: è questo un ambito su cui è possibile qualche ulteriore pensiero di integrazione delle tecniche da parte della regia.

Agota racconta la sua storia con un registratore in mano, scelta che rimanda al vecchio Krapp, icona beckettiana per eccellenza. La dimensione del racconto cambia: lei è una scrittrice ma affida i suoi ricordi alle audiocassette. Tutto viene registrato, senza poter essere cancellato o revisionato.

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Foto di Patrizia Memeo

La drammaturgia, che trae ispirazione da L’analfabeta, si incastra sapientemente con altre produzioni di Agota: La vendetta ma soprattutto Ieri, la storia di un uomo per il quale scrivere diventa una condanna, scandita dal ticchettio degli orologi della fabbrica in cui lavora.
Ripercorriamo tutta la sua vita: dalla scoperta della lettura all’ossessione per la scrittura, fino ad arrivare alla notte in cui, mentre l’Armata Rossa seda la rivolta ungherese, Agota attraversa la foresta con il marito e la figlia di soli quattro mesi per arrivare in Austria e da lì raggiungere la Svizzera.
Sono anni duri, in cui la scrittura diventa approdo sicuro: «La voglia di scrivere arriverà più tardi, nei giorni difficili», afferma Agota all’inizio della nostra storia.

Scrivere sì, ma come?

È in questo momento che arriva la svolta decisiva. Una profuga, come tante dei nostri tempi tormentati, si ritrova senza patria, lontana dal suo popolo e dalla lingua madre, “uccisa” dalla lingua matrigna. Il tema viene fuori con grandissima potenza. Quella di Agota è una vita alla deriva, in cui domina il senso di smarrimento e di estraneità, che porta la scrittrice a definire sé stessa “un’analfabeta”. Non siamo più al sicuro dentro quella stanza, un vento forte (quello di Ieri) entra e scombina tutto:

«Camminare nel vento è una cosa che non si può fare altro che da soli, perché c’è una tigre e un pianoforte la cui musica uccide gli uccelli, e la paura può essere dissolta solo dal vento, si sa, io è tanto che lo so.»

Il vento va attraversato e Agota lo fa, armandosi di dizionari e scagliando come frecce le parole “nemiche”, fino a diventare una tra i maggiori esponenti della letteratura francofona.

Sul finale, tagliati da quel vento e abbracciati dalle note del Coro a bocca chiusa di Puccini, si alzano le mura di una nuova casa, anche se: «Per il resto dei suoi giorni non smise mai di pensare con nostalgia a quella casa che aveva lasciato».

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Foto di Patrizia Memeo

LINGUA MATRIGNA

da l’analfabeta di Agota Kristof

progetto e regia Marinella Anaclerio

con Patrizia Labianca

voce narrante Flavio Albanese

immagini e grafica Giuseppe Magrone

assistente alla regia Stella Addario

organizzazione Tiziana Laurenza

foto di scena Patrizia Memeo

produzione Compagnia del Sole 

Teatro Kismet, Bari
7 aprile 2018