MATTEO BRIGHENTI | Le parole non hanno voce. Sulla carta restano lettere morte, confinate nel silenzio e vuoto di spazi e righe. Per essere liberate hanno bisogno che qualcuno le dica: un interprete. L’attore, dal canto suo, è una voce a caccia di parole, non ha alcun ruolo al di fuori del testo. Per essere detto ha bisogno che qualcuno lo scriva: l’autore.
Questo confronto non è solo “a parole”, ma diventa presidio di libertà e invito all’azione quando raccoglie e costruisce attorno a sé una comunità, come testimoniano Marta Cuscunà con The Beat Of Freedom e Fabrizio Gifuni con White Rabbit, Red Rabbit. Letture-spettacolo in cui epica ed etica sono facce dello stesso incontro.
Una sedia e un leggio sono alle spalle dell’artista friulana Premio Rete Critica 2017 per Sorry, Boys. Cuscunà è in piedi e ha in mano prima un libro e poi dei fogli. Non li tiene stretti: ha rispetto e delicatezza per le lettere ai giovani di partigiani italiani tratte da Io sono l’ultimo (Einaudi). Vanno maneggiate con cura, altrimenti rischiano di “rompersi” o peggio: non essere credute.
The Beat Of Freedom stasera inizia con Leandro Agresti “Malco”. Colui che è stato uno dei primi quattro partigiani di Firenze è presente in sala al Lavoratorio e non si aspetta affatto di essere letto. “Ma questa l’ho scritta io!”, esclama a Luigi Remaschi, presidente dell’Anpi fiorentina, seduto accanto a lui. Ha ancora i fazzoletti dell’Armata Liberazione e della Brigata Garibaldi “Bruno Fanciullacci” intorno al collo, 73 anni dopo il 25 aprile 1945. La Liberazione non è una volta e per sempre, deve essere riaffermata ogni giorno.
Minuta nei suoi jeans e scarponcini, i capelli raccolti in una lunga coda sulla spalla e il braccialetto giallo che chiede #veritàperGiulioRegeni, Marta Cuscunà carezza storie che hanno fatto la nostra Storia con tono garbato e gentile, ma non arrendevole, né tantomeno sdolcinato. È un’epopea di piccoli e grandi passi dalla dittatura fascista alla Repubblica, fatti da Miretta Busia “Moscerino”, Augusta Gleise, Ferruccio Mazza, Didala Ghilarducci, Argante Bocchio “Massimo”, Silvia Giai, Lino Liverani “Colli”, Annita Malavasi “Laila”, Ferdinando De Leoni “Falco”, Nello Quartieri “Italiano”.
Da giovani non si sono piegati all’inganno del tempo: hanno pensato l’impensabile. La guerra è stata la loro università, la Resistenza il binocolo con cui hanno visto il futuro. In montagna hanno preso un nome di battaglia per costruire una vita nuova da chiamare un giorno con il proprio nome, il loro nome proprio. Lassù uomini e donne sono stati uguali per la prima volta.
Ciascuna lettera è salutata con un applauso, che ringrazia come può quella gioventù spesa per il bene comune. Cuscunà quasi si schernisce, a sottolineare che il merito è loro, dei partigiani, non suo. The Beat Of Freedom è un racconto toccante, vivo, collettivo, narrato da un’artista che fin dagli inizi ha unito la ricerca artistica all’impegno civile e politico (una come lei è Maria Laura Caselli).
Il ricordo diventa giudizio sull’Italia di oggi. Parla al presente arrivando dal passato, dalla memoria necessaria che c’è stata una parte giusta e una sbagliata in cui lottare. Saremmo capaci di fare lo stesso? Di credere e morire per l’idea di un mondo migliore? Chiamate apertamene in causa sono le nuove generazioni. Per rimarcare che i giovani sono giovani sempre e possono prendere in mano il proprio destino in qualsiasi luogo o periodo storico, la colonna sonora del reading è composta da Green Day, Alanis Morrisette, Lou Reed, Patti Smith.
Le canzoni dei figli accompagnano i pensieri dei padri, le une nell’inglese irrequieto del rock, gli altri nell’italiano semplice dei partigiani: l’intesa, a questo punto, va oltre le parole, è nel sentimento attivo che muove chi vive con uno scopo. La vita è più forte di qualunque cosa se viene combattuta insieme, ciascuno con il suo contributo.
“La comunità è di per se stessa antifascista” afferma Remaschi nell’incontro con il pubblico al termine di The Beat Of Freedom. E per poco non si commuove, pensando alla difficoltà di tramandare il patrimonio combattivo della Resistenza, quando verrà a mancare la forza dell’esempio di un Agresti, che con disarmante naturalezza precisa: “A me non mi hanno liberato gli americani”.
Anche l’iraniano Nassim Soleimanpour, per certi versi, si è liberato da solo. Non imbracciando le armi, piuttosto prendendo la penna. Nel 2010, a 29 anni, decide di scrivere White Rabbit, Red Rabbit, non potendo comunicare con l’esterno del suo Paese. Le parole gli permettono di abbattere i confini o, meglio, ridurli tutti alle dimensioni di un foglio di carta.
Così, Soleimanpour passa di voce in voce attraverso centinaia di attori e incontra spettatori di 25 lingue diverse, con più di 1000 repliche in tutti i continenti. Il modo è rimasto identico fin dal debutto al Fringe Festival di Edimburgo nel 2011: nessuna regia, nessuna prova, l’attore o atttice non deve conoscere la storia e potrà interpretarla un’unica volta. Le consegne riguardano pure il critico: prudenza nel resoconto, per non causare danni all’autore, che oggi abita a Berlino, e attenzione a fare recensioni “tradizionali”, per non svelare il contenuto del lavoro.
White Rabbit, Red Rabbit sale sul palco del Teatro Cantiere Florida di Firenze con il passo stranito di Fabrizio Gifuni. È l’ultimo atto della rassegna Materia Prima 2018 della compagnia Murmuris, evento speciale del Festival Middle East Now. Un esperimento unico, una serata irripetibile per indagare il condizionamento del copione sull’attore al pari di quello del regime tirannico sull’oppresso.
In scena ci sono una sedia a sinistra, un tavolo al centro con sopra due bicchieri, una scala a destra. Le luci sono tutte accese, perfino quelle in sala, perché l’attore possa guardare il pubblico negli occhi. Alessia Esposito di 369gradi, la produzione italiana, consegna a Gifuni il testo in busta chiusa. Un vero e proprio salto nel vuoto, a maggior ragione per chi, come l’attore romano, è abituato a seguire la costruzione dei propri spettacoli parola per parola.
Dapprima è riluttante, sceglie di essere scanzonato verso la lettura, tenta di forzarne i limiti, stando contemporaneamente dentro e fuori il personaggio di se stesso che legge qualcosa che non ha mai visto prima. White Rabbit, Red Rabbit è, innanzitutto, un formidabile esercizio di lettura all’impronta ad alta voce. Non basta scorrere in anticipo la frase successiva, il colpo d’occhio deve essere rivolto all’intera pagina: comprensione e restituzione vanno fatte insieme, nel medesimo istante. Con ritmo e spontaneità, per quanto è possibile avendo dei fogli in mano.
La riluttanza si stempera in vicinanza e affettuosa condivisione con il pubblico, coinvolto direttamente per lunghi tratti con fare agile e vivace, quando Fabrizio Gifuni riconosce la ragione profonda della “sovranità” del copione. Sta attraversando la condizione dell’autore, che non sa in anticipo cosa scriverà. È un autore in cerca del suo personaggio, che rintraccia nel passato, nell’autobiografia, le parole per comporre il suo presente continuo.
White Rabbit, Red Rabbit, in definitiva, è una finestra sul mondo per e di Nassim Soleimanpour, allegoria e cronaca della repressione in Iran, sul filo obliquo tra ironia e dramma. L’aperta affermazione di una scelta: ora tocca a noi decidere se essere il coniglio bianco o il coniglio rosso, massa o individui. Ne va della possibilità che il palcoscenico rappresenti ancora il suo viaggio libero oltreconfine.
The Beat Of Freedom
tratto dal libro Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani a cura di Giacomo Papi, Stefano Faure e Andrea Liparoto (Einaudi)
di e con Marta Cuscunà
assistente Marco Rogante
creato per ViPride, il gaypride di Vicenza ’13
cura e promozione Centrale Fies
distribuzione Laura Marinelli
Marta Cuscunà fa parte del progetto Fies Factory
Il Lavoratorio
Firenze
13 aprile 2018
White Rabbit, Red Rabbit
di Nassim Soleimanpour
con Fabrizio Gifuni
produzione 369gradi
direzione generale Valeria Orani
Teatro Cantiere Florida
Firenze
14 aprile 2018