LAURA NOVELLI ed ELENA SCOLARI | LN: San Pietroburgo non è più San Pietroburgo. Il delitto non è la colpa più grave da espiare. La paura del castigo sembra essersi dileguata. Giusti e reietti si confondono. Nessuno è giudicato né giudicabile. I singhiozzi della coscienza si abbassano a ben più concrete turbolenze sociali ed erotiche. E dunque Dostoevskij che fine fa? Il dubbio nasce spontaneo durante e dopo la visione del discusso adattamento teatrale di Delitto e castigo firmato dal russo Konstatin Bogomolov (già noto per precedenti regie di autori classici come, tra gli altri, Euripide, Cechov, Shakespeare, Machiavelli) di cui Alice Capozza ha scritto per PAC un’accorta recensione qualche settimana fa (Delitto e castigo). Di questo spettacolo si è molto parlato su giornali e media, non senza toni polemici, per la portata provocatoria, persino blasfema, di certe scelte drammaturgiche e registiche.
ES: Sì, e diciamo pure che in Italia si indulge volentieri all’accusa di tentato scandalo, in teatro. Maggiore apertura e curiosità consentirebbero di non irrigidirsi con troppa facilità. Ho visto più di una persona uscire dalla sala dell’Elfo dopo una mezz’oretta… Certo Bogomolov ce la mette tutta, per scuotere le platee, ma non bisogna lasciarsi sopraffare. Anche io ho sofferto un po’ l’attacco dello spettacolo, eccessivo, caricato, ultrapop. Una smaccata e sfrontata dichiarazione di distanza, un pesante avvertimento al pubblico: non vedrete niente di quello che vi immaginate pensando a Delitto e castigo, io ve lo dico. Poi però, se si pazienta, si apprezza lo sviluppo del lavoro e il fluire dei cambi di tono che seguono questo ingresso sfacciato.
LN: Siamo di fronte a un lavoro che per prima cosa è un esempio emblematico di “decostruzione”. Il romanzo viene smontato in pezzi spesso decontestualizzati dal loro ordine originario e poi assemblati secondo una logica personale, all’interno della quale però, grazie a una tecnica di ‘montaggio delle attrazioni’ degna di Mejerchol’d, non manca nulla della trama. Un po’ come fece Luca Ronconi a suo tempo con la rivoluzionaria resa scenica dell’Orlando furioso riscritto da Edoardo Sanguineti. Motivo per cui la pièce risulta leggibile solo se si conosce bene la storia del romanzo.
ES: E avendolo letto in tempi non recentissimi la visione dello spettacolo ha fatto riaffiorare alcune sensazioni provate durante la lettura, segno che le situazioni inscenate dal regista – seppur tradotte in una lingua teatrale lontanissima dal testo – sono nella loro essenza fedeli al nucleo da cui traggono origine.
Avendo fatto la scelta di “riscrivere” Delitto e castigo, il delitto (teatrale) è consumato fino in fondo: i tagli sono drastici e eliminano tutto quello che nel romanzo è meticolosa descrizione, come il modo di lavare l’accetta dopo l’assassinio, per esempio.
Ricordiamo molti altri spettacoli ispirati al grande scrittore russo, visti negli ultimi anni sui palcoscenici italiani: i vari Grandi inquisitori (chi più chi meno…) di Peter Brook, Silvio Castiglioni o Serena Sinigaglia; gli Idioti di César Brie o Eimuntas Nekrosius; Memorie dal sottosuolo di Le belle bandiere. Stili eterogenei e approcci di avvicinamento distinti ma nessuno ha avuto l’impertinenza di Bogomolov. La sua faccia tosta è sfrontata, senza dubbio, ma si tratta di una lettura interessante e niente affatto peregrina, siamo davanti a un regista che ha letteralmente “fatto proprio” un testo, un testo pilastro, e ne ha dato la “sua” versione. Retta magnificamente da attori eccellenti tra i quali citiamo Renata Palminiello ed Enzo Vetrano perché sono uno Svidrigailov e un Marmeladov straordinari.
Con un po’ troppa Nutella in giro, questo lo dobbiamo dire.
LN: Questo lavoro russo ricorda alcune recenti regie “letterarie” di Antonio Latella (penso, ad esempio, a Francamente me ne infischio tratto da Via col vento); per altri versi la cifra graffiante di Thomas Ostermeier (come non citare Shopping and Fucking? ) e per altri ancora l’ironia carnevalesca di Rafael Spregelburd (soprattutto Bizarra). Tre artisti capaci di visioni sghembe che non stentano a ficcare i loro artigli nell’oggi. E proprio del nostro oggi ci parla Bogomolov: il suo Delitto racconta lo smarrimento contemporaneo, la perdita di un centro etico che segni una demarcazione netta tra Bene e Male. Nell’era post-post-moderna in cui viviamo, l’urgenza morale più vera – sembrerebbe suggerirci il regista – non è tanto giudicare se stessi (o gli altri) quanto barcamenarsi in una disperazione collettiva che esige – questo sì – un perdono quasi evangelico. Nel senso profondo del termine: anche i peggiori verranno perdonati sebbene non se ne ritengano degni. Ogni personaggio tratteggia qui una biografia a sé. L’assassino Raskol’nikov è un immigrato vistosamente tale, uccide con la stessa leggerezza con cui parla, annusa le scarpe Nike, bivacca sul divano. Sembra un personaggio da sit-com. Da telenovela. Tutto si svolge dentro un appartamento-città che nasconde disagi profondi e nessuno è fuori da questo gioco al massacro.
ES: A proposito di biografie personali: quello che a me è mancato, avendo il vizio di ripensare alla parola scritta, è il lento costruirsi dei rapporti tra i personaggi, per esempio tra Raskol’nikov e il poliziotto avvengono decine di colloqui, ore di conversazione, che legano i due in un modo particolarissimo, così come tra Raskol’nikov e la dolce Sonja.
In entrambi questi casi, invece, lo spettacolo ci presenta le coppie a un livello di conoscenza dato, determinato e non dinamico. Quello che ci restituisce, in parte, la complessità delle psicologie sono (a Fëdor quel che è di Fëdor) le parole di Dostoevskij che ogni personaggio recita in solitaria, anzi, meglio dire in soggettiva, seduto con le gambe penzoloni dal palco, guardando direttamente il pubblico, come in una confessione. A mezza voce, spogliandosi delle maschere, reali o illusorie e come uscendo dallo spettacolo stesso. Senza mani a la cabeza o a la cintura, senza Nike ne’ Nutella.