MATTEO BRIGHENTI | La paura è la scossa dell’indecisione. I chi sono, dove sono, cosa faccio e perché lo faccio cadono nel vuoto. Il tempo si ferma in un niente. E avanza una spirale di ombre che si fanno tenebre, come ne Il mio compleanno dei Riserva Canini, o presenze inanimate come Henry – Memorie teatrali d’oltretomba dei Blind Summit. Le costruzioni della mente impaurita trovano il loro “correlativo oggettivo” nell’esperienza di un teatro di figura nel primo caso crudo e incantato, nel secondo, invece, scolastico e frenato. Due opere, comunque, lontane dal compiacimento rassicurante di tante favole raccontate agli adulti come ai bambini (ne abbiamo ragionato qui). Infatti, solo se presi maledettamente sul serio i draghi possono essere sconfitti. Sottrarsi alla loro vista, nascondendosi al riparo dell’irrisione, equivale a perdersi e, di conseguenza, perdere, senza colpo ferire.
Il mio compleanno è un viaggio cominciato da poco, le mappe appena disegnate, per stessa ammissione di Marco Ferro, hanno bisogno di incontrare più e più occhi tra il pubblico per poter ribattere tutti i sentieri e aprire anche nuove vie e accessi alla “festa” di Marco. Il protagonista, appunto, condivide il nome, il tratto della figura e perfino il taglio di capelli del cofondatore dei Riserva Canini. Il suo legame con questa allucinazione sensoriale ispirata a Emicrania, il primo libro del neurologo inglese Oliver Sacks (Adelphi), pare alludere a una natura biografica o comunque simbiotica.
Ferro è in piedi, al microfono, sulla destra della sala del Lavoratorio di Firenze, senza scarpe, giacca e papillon. Da lì guida gli spettatori nella fisiologia e psicologia della “sequenza emicranica”. Resistere aumenta il dolore, abbandonarsi al male è l’unico modo per contenerlo. Il centro della sala è la “camera oscura” di tale abbandono: lui stesso, spalle alla platea, fa scivolare su un tavolo ottico disegni di figure sottili che si sviluppano sullo schermo alla parete in fondo.
Così, prende campo un vortice di lastre “animate” a mano, le immagini scivolano le une sopra e dentro le altre, trasformando in lungo e in largo la percezione di Marco e la nostra (di lui). Le sagome sono delineate da spessi tratti neri, i corpi allungati come grigie lacrime di terrore, gocce acetate di tenebra di un ragazzo trentenne che non sa più quanti anni ha. Il tempo vissuto, forse, non è mai esistito. Quella sera, poi, lo aspetta un discorso in pubblico, ma non ricorda quale, né sembra conoscere il perché.
La voce “clinica” è dal vivo, quella narrante è registrata e a uno stadio ulteriore degli attacchi del mal di testa essa diventa visionario monologo interiore. Allora Marco Ferro, stavolta nello spazio davanti al tavolo, muove una luce direttamente su alcune sagome in metallo. Forme di scale, case, proiettano sul medesimo schermo l’entrare e uscire della rappresentazione dai timori, tremori interni di Marco e dal coro d’assedio a quella che sembra l’occasione della sua vita.
Le silhouette si avvicinano e allontanano, si ingrandiscono e rimpiccoliscono, come se il rapporto con le cose, gli eventi, cambiasse continuamente profondità, visuale, prospettiva. L’intero dialogo tra io o, meglio, sprofondamento multiplo, è suscitato, accompagnato e, diciamo, verificato nei fatti, dalla sonorizzazione live di Stefano De Ponti ai bicchieri, archetto, transistor e notebook della consolle a sinistra della sala. “L’uomo è un abisso. Vengono le vertigini a guardarci dentro” si afferma a un certo punto citando Woyzeck di Büchner.
Il mio compleanno è lo stordimento nel fuoco mentale dell’emicrania con aura, che distorce il campo visivo e percettivo, sia di un attore che si scontra con le distorsioni del sistema teatrale, sia di un figlio che, a sua volta, fa i conti con la famiglia e i ricordi. I fili tirati dai Riserva Canini sono dunque molteplici e non tutti arrivano al capo, a rivelare cioè la visione che li unisce. Succede, ad esempio, per l’onirico ranocchio verde, più che rara macchia di colore in un mondo per il resto plumbeo. Il turbine di segni e direzioni concentriche smorzano, allentano, riducono via via l’incisività del lavoro, ma indubbi, dall’inizio alla fine, sono il fascino, la tensione e il mistero.
L’ultima fase dell’emicrania, spiega Ferro, è il “sonno emicranico”. Dopo, si può tenere qualsiasi discorso. Rifornito da De Ponti di scarpe, giacca e papillon, ormai identificato del tutto con l’evoluzione di Marco, è pronto per il brindisi. La candela magica che ha dato l’avvio come una torcia olimpica a questi giochi d’ombra in soggettiva non si è consumata invano.
Al contrario, la sigaretta tra le dita di Henry Chessel rimane intatta. Semplicemente perché non può essere accesa. Il tempo per un burattino è nullo come per la morte, non esiste. È la parola a portarlo e riportarlo in vita ogni volta che si racconta la sua storia. Per Mark Down, cofondatore dei Blind Summit, Henry – Memorie teatrali d’oltretomba è l’occasione per non temere più suo padre e ascoltare da lui tutto ciò che non è riuscito a dirgli da vivo.
In scena lo stesso Down introduce lo spettacolo al pari di Marco Ferro. È nato un anno fa al Funaro di Pistoia, dove ci troviamo stasera. Fogli alla mano, invita la sala, con quel tipico umorismo inglese fatto di autoironia, sarcasmo e aria distaccata, a “lasciarsi andare alla tristezza” e se a qualcuno sfugge qualcosa può sempre chiedere aiuto al vicino di posto. Non si tratta di un’introduzione, è già pieno svolgimento. Il formato è fin da subito descrittivo, peraltro nella cornice didattica di una master class rivolta a due burattinai, Fiona Clift e Tom Espiner, vestiti e incappucciati di nero.
Gli oggetti hanno un loro respiro, bisogna capire cosa vogliono per farli vivere nello spazio di un palcoscenico. Le domande, però, non vanno fatte realmente, ma soltanto nella propria testa. Per questo, scherza Mark Down, i due “allievi” sono a volto coperto. Il marionettista è invisibile, deve scomparire dietro una mano o un carrello portaspesa, donando ciò che a loro manca: l’unione di un istante con l’altro, il movimento. La ricostruzione del disegno complessivo spetta poi al pubblico, alla sua immaginazione e sensibilità. Un insegnamento, questo, pressoché disatteso alla prova del palco.
Difatti, l’interpretazione è indirizzata incessantemente dal narratore/agente. Ora, seduto frontalmente, è in aeroporto, ora, messosi di fianco, è in aereo. Piega a suo piacimento la libera inventiva degli spettatori, che, a questo punto, seguono la vicenda, ma non la animano del loro sguardo. La marionetta di Henry Chessel finisce quindi per non incarnare mai compiutamente l’arcigno padre di Mark Down, scomparso di recente. Tutt’al più evoca il fantasma di re Amleto venuto a chiedere conto al figlio dello scarso riguardo che il suo affetto e la morte hanno avuto su di lui.
Un cappellaccio in testa, il viso un tumore di fumo, la mano rachitica con la sigaretta, il corpo una busta nera, il famoso attore si racconta per bocca di Down, nei panni di Luke Chesse, “il più grande marionettista del mondo”, e per mani sue, di Clift ed Espiner, che ricreano episodi, momenti, passaggi, come lampi di una parte per il tutto: un fiore per la donna amata, dei libri per i copioni messi in scena. Ha recitato anche la sua morte, ma nessuno ha applaudito. Adesso che è avvenuta, ci prova Henry a farglielo sentire, a dare un senso alla fine, un profilo che vada oltre il sacchetto della spazzatura con i suoi effetti personali riportato a casa dall’ospedale.
Con la forma i Blind Summit cercano di allontanare, elaborare, arginare la smisurata perdita paterna, rovesciando ironicamente su chi se n’è andato gli effetti della sofferenza di chi è rimasto. Eppure, il dentro-fuori del master tra narrazione e azione, accompagnato dall’aprirsi e restringersi delle luci, non pare legato a moti d’animo propri o del burattino, piuttosto all’esteriore concatenamento degli eventi. A nostro avviso in questo modo risalta più Mark di Henry, più la maschera del dolore che il dolore medesimo, smentendo, in pratica, l’invisibilità del burattinaio decantata in apertura e, più in generale, il principio di una narrazione come coscienza ed elaborazione del lutto.
Tanto è vero che, rientrato nel contesto della master class, il maestro adombra la possibilità che la storia non sia vera in sé, ma lo sia diventata perché l’ha condivisa. Poi, per affermare definitivamente la sua autorità, chiama addirittura l’inchino per gli applausi.
Il mio compleanno
con Marco Ferro e Stefano De Ponti
immaginato e creato da Marco Ferro con la complicità di Valeria Sacco
invenzione, composizione, disegno e drammaturgia del suono Stefano De Ponti
collaborazione tecnica e realizzazione scenotecnica Matteo Lainati
una produzione Riserva Canini e Campsirago Residenza
col sostegno di Festival Teatro tra le Generazioni | Empoli; Festival Impertinente | Parma; AstiTeatro e Spazio Kor | Asti; Straligut | Siena; Phoebe Zeitgeist e ScortaMarosi | Milano
Il Lavoratorio
Firenze
Venerdì 4 maggio 2018
Henry
Memorie teatrali d’oltretomba
di Mark Down
da un’idea originale di Mark Down e Nick Barnes
collaborazione drammaturgica Tom Espiner, Michael Vale, Hattie Naylor, Giulia Innocenti
e con l’aiuto di Carolyn Choa, Philip Haas, Ed Docx
con Mark Down, Fiona Clift, Tom Espiner
regia Mark Down
assistente alla regia Alex Crampton, Julian Spooner
scene Ruth Patron
ideazione marionetta Mark Down e Nick Barnes
luci Hansjorg Schmidt
sottotitoli Letizia Sacchi
manager Ellie Simpson
produzione Blind Summit
con il sostegno di Il Funaro | Pistoia
Il Funaro Centro Culturale
Pistoia
Sabato 5 maggio 2018