RENZO FRANCABANDERA | Secondo gli studiosi dell’Università di Stanford la diversità culturale è un po’ come la biodiversità. Persa quella è la vita stessa del genere umano ad essere a rischio, la comprensione profonda.
Gli studiosi sono arrivati alla conclusione che il campo della psicologia debba essere “internazionalizzato” per compiere ulteriori progressi verso la comprensione della natura universale della mente, perché una serie di assunzioni filosofiche occidentali secolari su cosa significhi essere una persona o un membro di un gruppo in una società orientata all’individuo potrebbero aver erroneamente distorto la ricerca perché la maggior parte dei soggetti di ricerca, così come i ricercatori negli ultimi 50 anni, sono stati americani o europei. Insomma diamo per scontato che quello che vale per noi debba valere per tutti, e questo non solo è sbagliato ma rischia di essere addirittura pericoloso.
“Questo non è stato un problema finché non abbiamo iniziato a prendere molto sul serio la vecchia idea che le menti individuali siano sempre menti sociali”, dice Hazel Markus, professore di psicologia a Stanford. “Non hai una mente senza partecipazione culturale, ci stiamo allontanando dall’idea che la mente è come un computer che è lo stesso ovunque vada e indipendentemente da ciò che elabora”.
Le menti sono create e mantenute, ha detto, dalla partecipazione delle persone in vari mondi sociali – mondi “basati sul nostro paese d’origine, regione del paese, etnia, religione, genere, professione. Questi mondi non ci dicono solo cosa pensare, sentire e fare, ma strutturano il modo in cui pensiamo, sentiamo e ci comportiamo. I nostri mondi sociali sono organizzati da alcuni significati e pratiche specifici della cultura, e molto spesso questi sono così tanto parte della vita quotidiana che sono invisibili per noi. “
Ecco, se una considerazione va aprioristicamente posta sul tavolo di una giornata di studi sul Teatro Sociale come quella organizzata a Modena da Teatro dei Venti in occasione dell’edizione 2018 del Festival Trasparenze, è proprio questa: l’osservazione della complessità offerta dalla Babele delle strutture socio-culturali che il genere umano ha disseminato sul pianeta terra è una risorsa di valore assoluto, un alimento non solo per il teatro, ma per la società stessa. Sono le stesse conclusioni a cui giungeva peraltro Domenica 13 lo stesso Gerardo Guccini, docente di Discipline dello Spettacolo all’Università di Bologna, partendo però da indagini semiotico-relazionali, dopo aver partecipato ai lavori dei diversi tavoli di dibattito in cui si è strutturata la giornata.
Il Festival Trasparenze ha inteso così segnare un momento fondante del dibattito in Italia riguardo il tema del teatro nella sua declinazione più sociale. Per molti l’aggettivo Sociale è finanche pleonastico, trattandosi comunque di teatro, eppure è evidente che il lavoro svolto da moltissimi artisti con non professionisti all’interno di carceri, luoghi di degenza, centri di igiene mentale, centri per l’immigrazione, ponga problemi specifici delicatissimi e che riguardano il ruolo e l’etica condivisa fra i soggetti coinvolti.
Ancorchè fra gli intervenuti al convegno aperto da Andrea Porcheddu e Claudio Longhi oltre che da Stefano Tè padrone di casa, in molti fra coloro impegnati al tavolo della regia abbiano ribadito l’importanza di un rispetto e una distanza che permetta a tutte le parti in gioco di mantenere in equilibrio il proprio sistema valoriale, è innegabile che il tema di chi è fautore di arte in questi contesti abbia un riflesso etico di prima grandezza e che proprio gli studi di cui si faceva cenno all’inizio danno chiara evidenza. Richard Shweder, ad esempio, antropologo culturale dell’Università di Chicago, il cui recente lavoro si concentra su come il comportamento quotidiano riflette i valori morali incorporati nelle culture, ha analizzato proprio il passaggio di valori morali allorquando si entra in confronto con altre comunità, mentre Phoebe Ellsworth, psicologa dell’Università del Michigan, si è concentrata proprio su quanto in particolare l’attività culturale possa influenzare l’emozione che le persone provano, influenzando in particolare il modo in cui interpretano il significato di situazioni o eventi, quindi la realtà.
Chi opera nel teatro sociale deve dunque essere consapevole che anche in maniera non intenzionale, anche solo attivando il confronto con un’altra cultura si attiva una trasmissione di valori di cui l’arte è veicolo potente. A questo punto occorre anche analizzare nel dettaglio il tema non secondario legato alla consapevolezza di quanto ad esempio un regista può chiedere ad un attore “sensibile” di interpretare, in termini di ruolo.
E’ legittimo che il fine dell’arte prevalga su quello della coscienza dell’attore di quello che sta facendo? Pensiamo ad esempio a portatori di situazioni di disagio di vario livello e con diversi livelli di consapevolezza di sé. Ebbene questo tema che chi è coinvolto debba essere in qualche modo consapevole del ruolo simbolico che la sua partecipazione ad un evento spettacolare implica ha avuto una risposta unanime sul fatto che chi partecipa a progetti e creazioni di spettacolo dal vivo debba essere edotto e consapevole in forma piena del ruolo simbolico che ha non solo in quanto attore, ad esempio interprete del ruolo di Amleto, ma anche dell’eventuale ruolo di doppio simbolo di esserlo in quanto migrante o portatore di una disabilità fisica di qualche natura, che possa attribuire al suo fare un senso ulteriore e diverso. Per molti addirittura il teatro sociale dovrebbe riuscire a superare il tema del biografismo e dell’utilizzo della condizione soggettiva di chi interpreta, per passare invece al piano della comunicazione. Dunque non il migrante che interpreta il ruolo del migrante, ma l’uomo che interpreta Amleto, con tutto il suo portato di vita ed esperienze ma che, dove possibile, vada oltre il tema della condizioni.
E’ altresì evidente che questo tema non possa a volte essere eluso, per il semplice fatto che è la condizione ambientale stessa o soggettiva a porlo. E’ il caso dei detenuti con cui si è potuta confrontare Chiara Guidi nel suo laboratorio sul suono nella Divina Commedia, che ha restituito un esito di notevole pregio emotivo all’interno delle mura del carcere di Modena nella giornata del 12 maggio. In quel caso ancorchè coro di una partitura poetico-musicale, è sicuramente la condizione stessa dei partecipanti oltre alla dimensione ambientale in cui tutto accade a rendere impossibili alcuni passaggi di astrazione e altresì a favorire altre riflessioni sulla condizione, che in molti laboratori parte dal dialogo con le persone coinvolte.
Ma Trasparenze, come da diversi anni a questa parte fa, oramai, lavora al sostegno del nuovo pubblico, un concetto fin troppo abusato nel fiume di progettini di audience development in giro per l’Italia, alcuni invero sciatti e più volti a prendere i fondi che a sostenere nuove curiosità.
Un gruppo di giovani della Konsulta degli spettatori provenienti da diverse città italiane, ha avuto modo di scegliere alcuni artisti, di vederli lavorare in sala prove confrontandosi con loro giorno per giorno sul processo creativo insieme al critico Giulio Sonno e al prof Guccini stesso, per arrivare sempre nella sera del 12 a tre restituzioni da parte di ciascuna delle tre compagnie coinvolte. Il progetto Cantieri comprende per il secondo anno consecutivo una residenza nella quale è centrale il processo di lavoro piuttosto che la realizzazione di un prodotto teatrale, con compagnie scelte dalla Direzione artistica e dalla Konsulta. Le compagnie prescelte sono bologninicosta, Cantiere Artaud e Generazione Disagio, coadiuvate dalla compagnia Teatro Ebasko. Interessante e quasi prossima ad un esito spettacolare completo la restituzione di Generazione Disagio, realtà sicuramente più matura, rodata e con più strada percorsa.
Le sale piene, gli eventi partecipati, l’idea di una festa di stata capace di sofisticare i propri contenuti ma soprattutto un grande momento di partecipazione e confronto sulla pratica del linguaggio, hanno ribadito la centralità dell’impegno etico di Teatro dei Venti sul territorio emiliano. Il teatro sociale è certamente una pratica complessa che pone di fronte a dilemmi etici e di confronto interculturale molto ampii. Teatro dei Venti sceglie una sorta di sospensione dal giudizio e propone un festival in cui le diverse modalità di narrazione ed espressione si propongono allo sguardo degli spettatori, quasi cercando il dubbio, l’esplosione delle contraddizioni, il porsi delle domande. Il dilemma morale. Da Socrate in avanti la ricchezza della nostra civiltà, che stiamo facendo evaporare in nome di un’ analfabetismo fobico dilagante.
Occorre combattere molto e senza sosta.