FABIO MASSIMO FRANCESCHELLI | È probabilmente già alla fine del XIII secolo che si diffonde in Inghilterra una produzione narrativa, orale e scritta, dedicata al personaggio di Robin Hood, scaltro brigante di nobili origini che sposa la causa dei poveri e dei reietti e combatte le autorità, i potenti, i loro soprusi, senza peraltro abbandonarsi a forme di violenza. Quale che sia la genesi mitologica (o addirittura storica) di questo personaggio, è interessante notare come la sua adozione nella cultura popolare fiorisca in un epoca di transizione tra la monarchia assoluta e dispotica (il regno di Giovanni Senza Terra) e le prime forme di Stato costituzionale (la Magna Charta Libertatum). Incremento delle tasse e di vessazioni varie generano il sogno compensatorio di un “onesto” vendicatore, un ladro la cui azione criminosa assume i tratti di una rivincita di classe. Ci piace il ladro che ruba ai ricchi, soprattutto se lo fa con ingegno e senza violenza, ci piace perché interpretiamo il suo atto come una punizione verso i privilegiati di un sistema che giudichiamo corrotto. Rubare diventa, quindi, un atto di giustizia, è più il colpo è “grande” e più assume i contorni utopistici di “un altro mondo possibile”.

006-casa-de-papel-4-624x429Sfrutta queste logiche la serie spagnola La Casa de Papel, recentemente trasmessa in Italia da Netflix; un heist movie dinamico e iperbolico con evidenti strizzatine d’occhio al Tarantino de Le Iene, allo Spike Lee di Inside Mane e, almeno per il protagonista della serie, il personaggio del Professore, al Walter White di Breaking Bad. Le sfrutta diegeticamente, perché il realizzarsi di un effetto transfert, una sorta di collettiva sindrome di Stoccolma che porterebbe il popolo spagnolo a tifare per i rapinatori, è una delle condizioni previste dal Professore affinché il suo folle piano di rapinare la Zecca spagnola abbia successo. E le sfrutta, e ne incoraggia l’utilizzo, nel suo presentarsi al pubblico reale, stimolando lo scoccare di un’empatia che fidelizzi lo spettatore di Netflix non meno di quanto il Professore e la sua colorita banda di ladri riesca con l’opinione pubblica spagnola. L’uso, o abuso, del noto canto popolare antifascista Bella Ciao è un esempio in tal senso. Ed in rete è tutto un proliferare di recensioni e critiche che sottolineano le implicazioni politiche, movimentiste, resistenziali della serie, le quali tuttavia appaiono sostanzialmente un’abile operazione di marketing, un’esca esegetica che la promozione offre e su cui la stampa si avventa costruendo improbabili rimandi all’attualità europea, alla BCE, all’insorgere di istanze populistiche. Edoardo Bennato disse a proposito della sua produzione cantautorale “sono solo canzonette”; qui, lasciatemi dire, è solo fiction, narrativa seriale di ottimo livello, e se all’ultima puntata ci scopriamo fare un tifo sfegatato per i ladri e solo perché questiladri ci sono piaciuti tanto.

Il Professore, anticipavo prima, è il vero, unico, grande mattatore della serie, caricandosi addosso, come già fece Walter White in Breaking Bad, l’epica e la tragedia della lotta tra l’uomo e il caos, tra l’ordine e l’entropia, tra l’aspirazione al controllo onnisciente e la buccia di banana su cui prima o poi tutti scivoliamo svelando il maldestro e il goffo che è in noi.

1524152978-1522879874-58E se proprio è necessario trovare un filo con l’attualità, allora il Professore è l’apice della stirpe, leggendaria o reale che sia, dei cervelli in fuga, di chi ha l’idea vincente e pretende l’intelligenza e la competenza come principali chiavi per gestire con successo la vita, non la violenza, non la servitù, non l’appartenenza, non la banale scaltrezza. Ci sento il riverbero di echi, mai del tutto spenti, di sogno americano. Più o meno riusciti, più o meno interessanti, più o meno stereotipati gli altri personaggi, attori di linee narrative minori, fanno quel che ci si aspetta facciano, ma ognuno animato da un’apprezzabile “consapevolezza drammaturgica” del proprio ruolo e dei propri limiti, comprimari di una narrazione che affascina per essere la dettagliata e avvincente rappresentazione di una partita a scacchi (metafora ampiamente suggerita dalla serie stessa) che si gioca tra il Professore – il suo piano, il suo approccio deterministico di correlazione tra causa ed effetto secondo il quale tutto si può prevedere e controllare –, e tutti gli altri personaggi, i poliziotti, i ladri, gli ostaggi, riconducibili più al ruolo di pedine che a quello di giocatori. E più gli avversari del Professore si fanno piccoli e limitati, più emerge la vera partita in gioco, ben più imprevedibile e universale, quella tra un uomo, la sua hybris, e il fato.

Una menzione a parte merita il gioco d’amore tra il Professore e colei che gli dà la caccia, l’ispettore Raquel Murillo, relazione poco probabile per un detective di quel livello e ancor meno comprensibile dal punto di vista del professore e della riuscita del suo piano. Sembrerebbe un pasticcio di sceneggiatura, e forse in parte lo è, ma si riscatta per la fine ironia con cui la storia d’amore viene trattata: l’esperto capo della polizia che come un’adolescente si scioglie di irrazionale sentimento per il bel tenebroso appena incontrato in un bar; il freddo e geniale pianificatore che viene colto in fallo dalla sua donna a causa di… un capello sulla giacca. Insomma, uno di quei rari momenti in cui l’esercizio dell’ironia raggiunge le vette della pura genialità. Chapeau!

 

LA CASA DE PAPEL 

Serie televisiva ES, distribuita da Netflix, anno 2017.

Ideata da Álex Pina

Prima stagione, 22 episodi