MATTEO BRIGHENTI | Quel ramo del lago che fu torna a fiorire. L’immagine minimale, quasi zen, di Totem Arti Festival 2018 (24-27 maggio), un lieve tratto di china che sfocia in petali screziati di rosa, ben stilizza la direzione artistica di Natasha Czertok, che ha cercato la luce dell’incontro oltre la siepe dell’abitudine. Là dove la vita accade naturalmente, ogni giorno, a Pontelagoscuro, il borgo pochi chilometri a nord di Ferrara, sulla sponda destra del Po. Otto spazi diversi per un’offerta di spettacoli al chiuso e all’aperto, interventi performativi, laboratori, concerti. Dopo cinque anni tra il Parco Tito Salomoni e il Teatro Julio Cortazar, il fare culturale del Teatro Nucleo, la compagnia di origine argentina che opera dal 1978 sul territorio estense, ha percorso Via Venezia (il tratto di china) in direzione del coinvolgimento della città e dei suoi abitanti (i fiori sbocciati).
Difatti, il tema di questa sesta edizione sono state le relazioni, personali, politiche, sociali, all’atto poetico, ma anche pratico: una decina le realtà associative locali coinvolte nell’organizzazione e tre i lavori in cartellone selezionati tramite open call (in palio 500 euro di cachet, rimborso vitto e alloggio, per collettivi composti al massimo da cinque elementi). In giuria, su una totale di 134 candidati, la preferenza degli studenti dell’Istituto Comprensivo ‘Cosmè Tura’, guidati da Alex Giuzio di Altre Velocità e dalla regista e storica del teatro Manuela Rossetti, è andata a Yes Land di Giulio Lanzafame, Sin della Compagnia Progetto S/Cinqueminuti, Digito ergo sum della Compagnia Gandomi-Lorenzetti.
Nel nostro giorno di permanenza al festival, sabato 26 maggio, abbiamo assistito a Sin, “frammenti di un discorso amoroso” per tangueri, che i giovani giurati hanno programmato efficacemente nel Giardino della Scuola ‘Braghini Rossetti’ a mo’ di “educazione sentimentale” di larghe vedute, e a Digito ergo sum, un talent show sulla potenza dell’ossessione social, posto significativamente allo specchio del luogo principe della rappresentazione, il palcoscenico, nello specifico quello del Teatro Cortazar. Terzo e ultimo paesaggio da noi osservato sulla “geografia degli incontri” del Totem Shame in Italy. Diritti? No, grazie, la danza d’accusa di Simona Argentieri all’industria della moda che muove la protesta simbolicamente tra i palazzi del potere cittadino, il Cortile del Centro Civico.
L’unione degli sguardi, la scoperta di riconoscersi, la dolcezza di sentirsi scivolare tra le dita dell’altro. Rocco Suma e Salvatore Sciancalepore sono due sconosciuti che la notte di una balera qualsiasi unisce nel sacro vincolo del desiderio di completezza. Fa da testimone il tango, il “pensiero triste che si balla”, nato peraltro fra uomini. Sin, coreografato da Mario Coccetti, recupera il rispetto filologico della danza argentina, portando il movimento all’essenza, la libertà propria del genere umano.
I corpi, infatti, sono molto di più del loro genere sessuale. L’incedere ritmico di Suma e Sciancalepore riempie la scena spoglia, celebrando il detto e non detto che stringe e scuote qualunque rapporto di coppia. C’è sempre un desiderio che scaccia l’altro, il filo elastico che lega attrito e vitalismo è una partitura energica e sensuale tra dominio e sottomissione, assenso e contrasto. Le camice bianche spiegazzate dal tempo insieme sembrano lenzuola increspate da vite vissute in fretta per paura dell’alba e, con essa, della malinconia delle occasioni mancate. Il bacio è la respirazione bocca a bocca che stacca il cuore dalle sfumature dell’indecisione come scelta.
L’unità si realizza l’attimo prima dell’addio. Il tango, lo abbiamo detto, prende il passo della tristezza. Ogni gioia, ci insegna, è per definizione momentanea, illusoria, beffarda: quella amorosa più che mai. Si ritorna all’inizio, i due ballerini, di spalle, applaudono la musica che è finita, come il pubblico batte le mani alla loro appassionante costruzione svanita di un futuro comune. Sin non li ha salvati dal restare uno di due, soli, divisi, staccati, ma ha trasformato da due in una la pista e la sala. Un’unica milonga che insieme possiamo chiamare felicità.
Ulduz Ashraf Gandomi e Cecilia Lorenzetti danzano con le parole la ricerca del proprio posto nel mondo, ma l’orizzonte di Digito ergo sum è evanescente e mutevole come un click. Nella dittatura dei social la questione dell’essere diventa quella dell’esserci, il pensiero, fondamento cartesiano, verità indubitabile dell’esistenza, è ridotto a inseguire aspettative e giudizi della maggioranza. Quello strenuo apparire (in) pubblico inganna prima di tutto se stessi, facendo passare la conformità per volontà, l’adesione a modelli imposti come libera autodeterminazione.
Il vuoto identitario è una conquista di senso cristallina del progetto vincitore del premio Giovani Talenti Creativi 2016 del Comune di San Lazzaro di Savena (Bo). L’incisione nel reale diretta da Alessandra Tomassini, però, si ferma qui, alla descrizione allegorica degli effetti, mancando del tutto l’affondo nelle cause. E per giunta, come prospettiva lirica di emancipazione, viene adombrato il ritorno a un anacronistico passato analogico, come se i social network non fossero già un punto di non ritorno, tanto nel male quanto anche nel bene.
Due sedie da ufficio a rotelle e uno schermo per le proiezioni sono scena e fuori scena di una misteriosa selezione digitale. Gandomi e Lorenzetti entrano con due sacchetti con scritto #1 e #2 e si siedono l’una accanto all’altra, a favore del pubblico. Non si decidono a palare, nell’imbarazzo di non sapere cosa chiedere, fino a quando il ghiaccio non si rompe sulle tipiche banalità tra estranei: che fai, da dove vieni. Una è della montagna, l’altra è del mare e, del resto, una è bionda e l’altra è mora, una è in carne e l’altra è magra. Sono accomunate dal vestito sul verde smeraldo, prova una volta di più che sono le due facce opposte di una stessa donna, che sono tutte le donne, e, attraverso di loro, l’umanità intera.
La voce fuori campo di Fabrizio Carbone è quella del selezionatore che presenta alle due aspiranti a chissà cosa le prove da superare. Devono spiegare cos’è social, fare tutorial, commentare l’esistente. I giudici siamo noi, gli spettatori, o meglio i follower. Per finta, perché il meccanismo drammaturgico non prevede una vera partecipazione che possa influenzare il corso di Digito ergo sum, cosa che, invece, avrebbe dato evidenza concreta all’impatto del virtuale sul reale.
L’esperimento quindi è pilotato con l’uso di caratteri e toni immutabili come i font dei social e giovanilismi a effetto del tipo “Facebook è meglio che fare l’amore”, “è come fare l’amore con tutti”. Domande fondamentali su come essere se stessi e se è possibile esserlo in Rete rimangono solo accennate. Eluse al pari del tema dei temi, il tempo, per cui sarebbe sprecato ciascun momento non passato su Internet. In breve, ciò che ci fa essere umani, la realtà concreta della vita.
Non si rassegna alla disumanità del tempo negato Simona Argentieri. In particolare, quello che rifiuta dignità lavorativa e condizioni minime per la sicurezza a milioni di operai nei settori tessile e calzaturiero in Asia, Est Europa e nelle regioni italiane, da Nord a Sud. Shame in Italy. Diritti? No, grazie è ispirato agli scandali di un’industria seconda per inquinamento al petrolio, una montagna di spazzatura raffigurata da un cumulo di stracci sulla sinistra. Argentieri esce da lì sotto rantolando, indossa una tuta blu: l’operaio è ormai uno scarto, un rifiuto, fa notizia da smaltito e basta.
La fabbrica oppressiva, il pericolo costante, le mansioni ripetitive, gli orari impossibili, sono una danza che impone agli sguardi un cambio di gravità e prospettiva, tanto che i bambini che prima giocavano ignari adesso osservano rapiti dall’angolo laggiù in fondo. La danzatrice si mette una mascherina, il respiro affanna, una voce metallica lancia avvisi a ripetizione “per evitare ferimenti causati da malfunzionamenti”. Siamo al culmine della vergogna di sfruttamento e precarietà nascosti dietro i lustrini del fashion.
La truffa è svelata ai nostri occhi, al prezzo della plastica su quelli di Simona Argentieri, il velo a destra che la sposa con ciò che è stato gettato perché, all’apparenza, non serviva più a nessuno.
Sin
coreografia Mario Coccetti
con Salvatore Sciancalepore e Rocco Suma
produzione Associazione Culturale Cinqueminuti
con il sostegno di De Micheli Festival e Teatro Due Mondi
Digito ergo sum
di e con Ulduz Ashraf Gandomi e Cecilia Lorenzetti
voce Fabrizio Carbone
regia Alessandra Tomassini
aiuto regia Fabrizio Carbone, Marta Sappa
adattamento drammaturgico Camilla Mattiuzzo
movimenti di scena Daniela Mariani
sound designer Marianna Murgia
lighting designer e locandina Daniela Gullo
costumi Jone Filippi, Elena Sueri
video proiezioni Aras Ashraf Gandomi
tecnico audio Fabio Vassallo
organizzatrici Antonella Nitti e Nicole Garofoli
ufficio stampa Carla Monni
progetto realizzato grazie al Premio Giovani Talenti Creativi 2016 del Comune di San Lazzarodi Savena (Bo)
Shame in Italy. Diritti? No, grazie
coreografia e interpretazione Simona Argentieri
costumi e scene Angoli di Mondo Coop Sociale
musiche Argentieri, Four Tet, Russolo
produzione Babel crew
con il sostegno di Angoli di Mondo, Cantieri Culturali Creativi Rovigo, Cultura Tango asd, Spazio Zephiro