ALESSANDRA PRATESI | «Chiudo gli occhi, mi scosto di un passo. / Sono altro. / Sono altrove», scriveva Alda Merini. A Roma, tra San Pietro e Trionfale, invece, gli occhi sono ben aperti all’Altrove Teatro Studio. I direttori artistici, Ottavia Bianchi (classe 1982) e Giorgio Latini (classe 1987), sono cuore e ragione di un unico progetto, di vita e d’arte. Nel 2012 ha preso forma con la fondazione dell’Associazione di Promozione Sociale “I Pensieri dell’Altrove”. Sei anni dopo, nel 2018, diventa un teatro in carne ed ossa. Scendiamo le scale di Via Giorgio Scalia 53, accompagnati da murales in tinta bianco-nero-rosso con un carnevale di animali dagli atteggiamenti antropomorfi (omaggio dell’artista Cristina Gardumi, un particolare nell’immagine di copertina ), e li incontriamo. In occasione della presentazione della stagione 2018-2019, martedì 5 giugno, ci svelano – letteralmente – le quinte del loro teatro. È nuovo di zecca in parquet flottante, con decori rosso-neri come da miglior tradizione, sala prove e palcoscenico 6,5×6,5m. Si inserisce in un quartiere romano ad alta densità di popolazione al quale manca un teatro, eccezion fatta per il piccolo Ar.Ma.Teatro. Ed un’arma potente il teatro lo è, con potenzialità inimmaginabili. Quanta immaginazione hanno Ottavia Bianchi e Giorgio Latini?
Qual è la vostra idea di teatro?
OB, GL: È un teatro a misura di pubblico e di attore. Veniamo da studi di teatro [lei è diplomata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, lui all’Accademia Internazionale d’Arte Drammatica Teatro Quirino Vittorio Gassman, ndr] e da dieci anni di esperienze sul campo, seppur al di fuori dei circuiti nazionali. Sappiamo sulla nostra pelle di attori cosa significa fare teatro. Abbiamo tenuto conto delle esigenze del pubblico, quindi, ma anche dell’attore. Il palco e la platea hanno la stessa dimensione, le sedie sono disposte in gradinate, gli spazi sono perfettamente climatizzati e insonorizzati, le luci sono led di ultima generazione, ovvero non solo il classico rbg ma anche luci color bianco e ambra per simulare l’incandescenza. È un posto dove apprendere il mestiere dell’attore, corredato di sala prove e progetto di formazione dei giovani di durata biennale. È uno spazio adatto ad accogliere i debutti, date le proporzioni sostenibili (la sala conta 99 posti), ma non solo.
Quale tipo di pubblico avete in mente?
OB, GL: L’aspirazione è che Altrove sia anche un luogo di ritrovo e di scambi umani in un quartiere prevalentemente dormitorio. Dopo tanta ricerca abbiamo scoperto in Via Scalia 53 questa autorimessa abbandonata e inutilizzata dal 1962: il contenitore ideale, e non solo per il momento dello spettacolo. Durante la prestagione abbiamo già raggiunto il numero di 50 abbonati: un ottimo inizio. L’intellettualismo fine a se stesso, pieno di sfarzi e per addetti ai lavori, è bandito; largo alle persone vere, dalla casalinga all’adolescente: un pubblico di quartiere insomma. Puntiamo ad un’operazione di qualità, puntiamo ad una storia che sia bella e faccia pensare, per orientare il pubblico, non per indottrinarlo. C’è fame di cultura, la televisione non basta: noi parliamo con le persone.
Chi ci sarà sul palco dell’Altrove nella stagione 2018/2019?
OB, GL: Stefano Benni, scrittore di romanzi e racconti, sarà tra i primi ad aprire le danze, ad ottobre, con uno spettacolo dedicato al pianista jazz Thelonoius Monk, accompagnato da Umberto Petrin al pianoforte. Benni è già stato presente durante la prestagione tenutasi tra febbraio e maggio 2018 con Blues in 16, una ballata blues in versi, drammatica e inusuale per la sua penna satirica, un reading per coro e voci sole che è stato ben accolto dal pubblico. In totale 14 spettacoli, altre tre letture-concerto e il resto di prosa. Ci sarà una particolare attenzione ai focus biografici: in scena avremo le vicende di Alda Merini, Frédéric Chopin, Federico Fellini e Giulietta Masina. In cartellone attori come Giulia Nervi e Adolfo Margiotta, registi come Stefano Viali e Massimiliano Vado. E naturalmente noi!
Come avete scelto gli spettacoli in cartellone?
OB: Mi chiamano la “talebana del teatro”: sono molto esigente. Abbiamo dato spazio alla drammaturgia contemporanea, purché valida e interessante naturalmente. La selezione è stata fatta a partire dai video, preferibilmente integrali, degli spettacoli. Quello che proponiamo è ciò che ci ha emozionato: ci siamo innamorati di tutti gli spettacoli che abbiamo deciso di portare in scena.
Quali sono gli ingredienti della drammaturgia e della regia contemporanea secondo voi?
OB: Il testo in primis, perché è il perno centrale di uno spettacolo: siamo dei nerd del testo. Amiamo la danza e il teatro fisico, ma nella nostra visione di teatro c’è molta prosa e poca figura. Ci vuole un testo che abbia una struttura forte e dei dialoghi buoni. E una persona capace di scriverli. Ci vuole un’idea che parli al cuore e che sia di respiro universale: si può parlare dell’abbandono oggi anche portando in scena una storia di cento anni fa.
GL: In secondo luogo un’idea di regia valida e attori capaci. Negli spettacoli che scegliamo questi sono i tre cardini che non possono mancare. Uno spettacolo al 50% è fatto dal testo. Ci vuole una regia coerente che esalti senza essere preponderante rispetto al testo e agli attori. L’obiettivo di uno spettacolo comico è far aprire la bocca per ridere e per metterci il tuo messaggio. Ecco, il personaggio parla perché c’è un’urgenza. Non si punta il dito, si racconta una storia e si riflette: ci deve essere un filtro altrimenti è cronaca.
Avete commissionato qualche spettacolo?
GL: Ci abbiamo pensato, ma non è il caso di fare il passo più lungo della gamba, ci affidiamo alle proposte e alla ricerca per il momento.
OB: Partiamo dall’idea, non dagli uomini. Siamo fermamente convinti che non tutti gli attori siano adattabili a qualsiasi ruolo o progetto. Questo è il motivo per cui, nonostante i corsi di recitazione che gestiamo dal novembre 2017, non puntiamo ad una compagnia stabile. Pregi e difetti, indubbiamente: da un lato potremmo avere uno zoccolo duro di attori che si intendono al volo, dall’altro, però, incorreremmo nel rischio di cucire a tutti costi addosso agli attori parti non adeguate.
Da cosa nasce il progetto dell’Altrove Teatro Studio?
OB: Subito, quando ci siamo incontrati. Non è un caso se siamo anche una coppia nella vita. Per mettere su un progetto come questo, che non ha garanzie economiche immediate, ci vuole coesione nella visione comune dell’obiettivo, desiderio di fare e di avere libertà nelle nostre vite. L’attore in attesa perpetua può essere un modo di vivere. Non è il nostro.
GL: È palpabile la percezione che esista un vecchio e un nuovo teatro, a livello di sistema e di circuiti, con il rischio che si perda gradualmente e rovinosamente il concetto di mestiere. Il teatro spesso è vissuto come una passione da non professionisti: non è accettabile. Nessuna ambizione di restaurazione nella nostra idea, piuttosto il desiderio di abbracciare la transizione con un’idea nuova.
Come avete capito che il teatro sarebbe stata la vostra vita?
OB: A cinque anni. Mio padre faceva teatro per hobby, lo guardavo durante le prove: è stata una vocazione, come la chiamata del prete. Prima di intraprendere il mestiere dell’attore, però, ho frequentato l’università, senza mai abbandonare il palco e la musica. Le strade della vita mi hanno portata a lavorare nella zona Parioli di Roma: passavo ogni giorno davanti a Via Bellini 16 [sede dell’Accademia “Silvio d’Amico”, ndr]. Infine feci il provino.
GL: L’unica volta che avevo fatto teatro ero in prima elementare. Poi a 20 anni una folgorazione sulla strada di Damasco (o quasi). Sei mesi alla facoltà di Ingegneria, ma non ero felice. Mi iscrivo ad un corso di doppiaggio per capire che quello che realmente mi piaceva erano le pause: il pubblico aspetta e durante quei momenti di silenzio ascolta e immagina. Io potevo essere l’autore di quelle sospensioni e di quelle attese. Faccio l’attore perché sono felice.