RENZO FRANCABANDERA | Dovevamo saperlo. I primi effetti già si vedono.
Dovevamo saperlo che ci sarà una rivoluzione, che non sarà indolore.
Che verranno spazzati via anni e anni di fatiche, di onesti operatori culturali, che da anni presidiano periferie, territori di frontiera, con progetti più o meno utopistici.
Sarà un grande stravolgimento di equilibri, e questo anche per un grande ma semplicissimo motivo, ovvero che nell’Italia dei campanili la comunità artistica italiana non ha mai fatto in qualche modo corporazione, divisa com’è fra grandi operatori intorno ai quali ruotano denari, opinione pubblica e sostegno mediatico, e realtà di frontiera di calibro medio-piccolo, che si troveranno con un governo che non ne vede di buon occhio l’azione sul territorio: questi ultimi senza una presa di conoscenza collettiva saranno spazzati via da mattina a sera.
E’ capitato prima ancora che il governo si insediasse, quando una serie di piccole rassegne storiche, si sono viste cancellare piccoli (a volte indegni) contributi a valere sul FUS con il tema del discrezionalissimo criterio del merito artistico (ritenuto in questo caso scarso), per attività con 20-30 anni di storia, soppiantati di colpo da festival neonati. E sorprendentemente tutti i “senior” bocciati dalla solerte amministrazione pubblica ministeriale sono stati tutti fermati con un punteggino identico, prima ancora di poter arrivare alla valutazione complessiva, dove poi sono i numeri veri a contare. E giocarsela lì sul merito di quanto fatto.
Ed è di queste ore la notizia che una delle vittime di questa falce del nuovo che avanza, della politica “invasiva”, possa essere il Terni Festival, una rassegna dedicata alla creazione contemporanea e alla creatività sociale, che per molti anni ha agito in spazi periferici della città umbra, favorendo politiche di riqualificazione del territorio, di dialogo con la cittadinanza, sublimate alcuni anni fa attorno ad una delle prime, se non la prima creazione di Olivier Grossetête in Italia, nel 2015 di cui c’è un bellissimo documento filmato che forse più di ogni altra parola può raccontare che tipo di intervento e di pensiero sulla comunità questo festival intende perseguire, nel dialogo con la cittadinanza attiva.
Una intera cittadina mobilitata, in questo come in molti altri progetti, attorno ad una forma di presenza dell’arte sul territorio che è innegabile che abbia posto al centro un pensiero sul rapporto fra arte e periferie, fra arte e politica, fra creatività e sopravvivenza del tessuto sociale mai come in questo momento attuale e necessaria.
“Era il 2006. Insieme alla rigenerazione di uno spazio industriale dismesso (l’ex Opificio Siri, diventato oggi Caos) nasceva il Festival internazionale della creazione contemporanea di Terni. 12 edizioni, l’ultima nel 2017. Una crescita costante, di reputazione nazionale e internazionale, di pubblico proveniente da tutta Italia e non solo, di qualità della proposta, grazie alla collaborazione con reti di festival, partner e con istituti di cultura stranieri, grazie alle decine di volontari e tirocinanti da tutta Italia, attraverso un processo di attivazione delle energie più giovani della città. Il festival è stato una sperimentazione continua e collettiva per i cittadini e la città.”
Così recitala lettera apertache il Festival diretto da Linda Di Pietro ha voluto pubblicare sul proprio sito, comunicando la sospensione dell’edizione 2018 e forse addirittura la chiusura definitiva di questa lunghissima esperienza di arte nella periferia, in una città simbolo della deindustrializzazione. “Questo appello è frutto di una posizione maturata nei mesi – ha dichiarato la Di Pietro a PAC – una posizione che risponde alla necessità di una città intera a non vedere chiudere e cancellare tutte le proprie manifestazioni culturali una dopo l’altra, in un momento di crisi come quello che sta affrontando la città di Terni. Chiudere Terni Festival vorrebbe dire smettere di sognare un futuro diverso per la città, smetter di immaginare spazi pubblici animati, vivaci, smettere di credere nel ruolo della cultura e dell’arte per lo sviluppo del territorio. Non vogliamo chiudere Terni Festival, crediamo nel valore propulsivo di una manifestazione culturale come questa, fra le poche in Italia che ha saputo intercettare le energie nuove della scena nazionale e internazionale, dialogando con i cittadini, le comunità, le difficoltà del territorio. Questo appello nasce perchè non vogliamo mollare, convinti che il Festival abbia ancora tanto da raccontare, tanto da dire”.
Dalle grandi città alle regioni del Sud, il tema delle periferie, che in fondo Matera Capitale Europea della Cultura 2019 incarna in pieno, diventa centrale per la costruzione della società di domani.
Il Festival, ovvero l’occasione di incontro e confronto libero di idee fuori dalla programmazione di una stagione o di un’istituzione culturale che deve tenersi in equilibrio fra i gusti, è diventato così, proprio per sua natura, un’occasione di costruzione sociale dal basso. Occorre saperlo, metterlo in conto: molto di quello che è stato faticosamente costruito in questi anni verrà spazzato via. E molto altro resisterà se saranno le comunità a reclamarli a gran voce, le comunità in cui queste azioni si sono radicate, con progetti a volte lunghi, di osservazione e paziente costruzione.
E’ il caso di “Super, il festival delle periferie” a Milano è un percorso lento, iniziato nel 2015 dall’associazione culturale TumbTumb, un gruppo interdisciplinare di persone che, attraverso 23 tour nei quartieri, l’incontro con 160 realtà e 10 progetti tematici che verranno messi in scena in una festa finale nel 2018, che ha provato a mettere in discussione lo stereotipo che vuole la periferia come luogo di degrado troppo spesso circolante sui media e nella politica. Super ha così favorito l’emersione delle esperienze di realtà attive e spesso informali capaci di generare azioni dal basso, rispondere a bisogni e desideri, valorizzare interi quartieri. Grazie a una borsa di studio della European Cultural Foundation, dopo aver partecipato nell’aprile 2017 al workshop di Ideacamp, insieme a realtà provenienti da tutta Europa, Super ha attivato un ciclo di laboratori con l’obiettivo di coinvolgere di nuovo, dopo i tour, tutte le 160 realtà ascoltate in questi due anni di lavoro.
O il Festival delle Periferie a Genova, dedicato alla musica indipendente, giunto l’anno scorso alla 15esima edizione e diventato importante rassegna della musica indipendente italiana.
Il Rigenera SmART City – Festival delle Periferie, festival delle Periferie a Palo del Colle in provincia di Bari, che quest’anno prepara la sua quinta edizione, intorno ad un laboratorio di rigenerazione urbana che ha riqualificato anche economicamente tutta l’area periferica su cui insiste. O SabirFest a Messina e Festival Teatro Bastardo a Palermo.
E così anche il progetto Periferico, di Amigdala a Modena, che in pochissimo tempo ha guadagnato un’attenzione nazionale per la capacità di ragionare sulla natura strutturale, socio-economica, del quartiere artigiano di Modena.
Per non parlare di AltoFest di TeatrInGestAzione a Napoli, in cui dal 2011, ogni anno in diversi quartieri di Napoli, i cittadini donatori di spazio di Altofest offrono in dono ospitalità ad artisti nazionali ed internazionali. Gli artisti durante un periodo di residenza creativa riqualificano una loro opera di repertorio, mettendola in relazione con i luoghi del vissuto quotidiano del cittadino che li sta ospitando (appartamenti, terrazzi, sotterranei, cortili, interi condomini, laboratori artigianali…). Questi stessi luoghi, al termine del periodo di residenza, si aprono al pubblico per una grande festa. Ogni anno Altofest si apre con Texture, piattaforma di confronto tra operatori internazionali su pratiche culturali e visioni artistiche di rigenerazione umana/urbana.
In tutti questi casi a costruire ci sono voluti anni e a distruggere basteranno pochi giorni, ora per mano della “nuova” politica, ora per mano dei suoi solerti nuovi funzionari, che per farsi vedere più realisti del re, getteranno il sale nel vaso dei germogli. D’altronde “I pessimi funzionari sono eletti dai bravi cittadini che non votano.” (George Jean Nathan) e la politica è l’arte d’impedire agli avversari di fare la loro.
Quindi si sappia e lo abbiamo sempre detto: l’arte è politica. Se ne è discusso, anche spaccando la comunità dei teatranti, a proposito del monologo di Favino su Bernard-Marie Koltès. E quell’evento pose il tema per certi versi anche cruciale della protezione che comunque i medium offrono all’arte, e alla mediazione fra medium, politica e arte. Non è un caso che moltissime produzioni teatrali ormai incorporino sempre più spesso attori del piccolo schermo, perchè avvicinano un pubblico che diversamente è meno interessato al linguaggio spettacolare nelle sue evoluzioni più ardite. Non è nemmeno un caso che il linguaggio dello spettacolo dal vivo si sia andato assai banalizzando e impoverendo negli ultimi vent’anni, di pari passo con l’analfabetismo funzionale dilagante, rispetto alle esperienze grandiose e totalizzanti dei collettivi degli anni Settanta e Ottanta. Chissà che non si debba passare per un rigetto di tutto quello che sta accadendo, per una nuova presa di coscienza, lontano dai social (ora inimmaginabile) per tornare a forme di condivisione concreta, reale, presente.
E’ proprio quello che questi Festival, questi interventi, hanno cercato di fare in questi anni. Ed è forse per questo che a loro modo infastidiscono. Meglio tutti chini, con la testa sullo smartphone, a non ad osservare e comprendere il mondo attorno, a non capirne le logiche profonde, le integrazioni possibili. Lo si è teorizzato al Festival del Pensiero Ribelle in questi giorni. Proprio per questo si sappia: cercheranno di distruggere tutto quello che si è costruito, con abilità scientifica. Per soppiantare questi esperimenti con allegre e “comode” feste della birra, magari con gruppi di musica celtica a contorno e qualche massaggio new age per chiudere in bellezza.
Forse è il caso di pensarci, di organizzare bene un pensiero comune e una struttura a nodi, di sostegno a quanto è stato fatto, superando gli egoismi, costruendo una rete importante, grande, che superi i campanili e faccia rete. E’ il momento.