LAURA BEVIONE | Platonov è la prima “commedia” scritta da Anton Cechov ed è anche la meno frequentata, trattandosi di una sorta di opera monstre che in sé contiene caratteri, situazioni, oggetti e luoghi che si ritroveranno nei suoi successivi capolavori, da Il Gabbiano a Le tre sorelle. Un testo fluviale e composito della cui spinosa natura erano ben consapevoli Marco Lorenzi e la sua compagnia, Il Mulino di Amleto, nel momento in cui scelsero di metterlo in scena. Lo spettacolo, non a caso, è il risultato di un percorso pluriennale di studio e di lavoro, punteggiato da eterogenei periodi di residenza, inaugurati da una rilassata ma esaltante Residenza Cechov nell’aprile 2016. Il testo è sfrondato di personaggi e accadimenti secondari al fine di concentrare l’azione sul suo nocciolo significativo, ovvero la sostanziale incapacità di vivere di quegli uomini e quelle donne innamorati della vodka e delle proprie illusioni – artistiche, di amore, di carriera – e particolarmente diligenti nel boicottaggio della propria felicità. A capeggiarli, il protagonista, il maestro Platonov, cui Michele Sinisi offre la propria terragna passionalità, affiancato da un cast affiatato e coinvolto, nel quale si distingue la Anna Petrovna di Roberta Calia, cinica suo malgrado. Gli interpreti sono seduti tutti su un lato del palcoscenico, il tecnico è sull’altro lato a segnalare quella meta teatralità che è cifra di Lorenzi, che riesce, alleggerendo i toni, a tratteggiare efficacemente la disperazione che attanaglia tutti i personaggi. Si ride certo, ma le lacrime che accompagnano le risate si tramutano fatalmente in pianto disperato. E, allora, nel finale, ecco che prende la parola Yuri D’Agostino che, uscendo dai panni del proprio personaggio, pare diventare portavoce dello stesso autore – come di tutta la compagnia – per rivolgere un invito accorato agli spettatori: scegliete la vita che potete avere, non auto-condannatevi all’infelicità. Così, non ci sarà più bisogno dell’apparizione di pistole a concludere tragicamente esistenze infelici, come appunto avviene immancabilmente nei drammi di Cechov.
Non compaiono armi neppure in Summerless, il nuovo spettacolo dell’autore e regista iraniano Amir Reza Koohestani, ma la violenza psicologica “di stato” pervade e condiziona le esistenze dei tre personaggi in scena. Una scuola elementare, una sorvegliante, il marito – pittore incaricato di ridipingere le pareti del cortile -, la mamma di una bambina che pare essersi innamorata dell’uomo. Al centro della scena, una giostrina, bloccata affinché le allieve non si facciano male. Sul fondo del palco, una parete sulla quale vengono proiettati i dipinti tracciati dall’uomo. Passano le stagioni, l’inquinamento di Teheran costringe a chiudere la scuola, piove e nevica, ma poi arrivano maggio e la fine dell’anno scolastico e con essi una sorta di resa dei conti fra i protagonisti che, nondimeno, non avverrà realmente. Prevale il non-detto, malgrado il fitto scambio di battute; l’ambiguità e l’allusione dominano in un universo fitto di contraddizioni e proibizioni, paradossi e frustrazioni. I sentimenti e le emozioni possono essere censurati ma non certo annullati: Koohestani, pur obbedendo alla necessità di non denunciare in maniera esplicita il regime iraniano – pena l’impedimento a continuare l’attività artistica della propria compagnia – riesce a trasmettere al pubblico quel senso di claustrofobia, di soffocamento della personalità e delle emozioni, che mutila le esistenze dei propri connazionali.
E di claustrofobia parlano anche Roberta Bosetti e Renato Cuocolo scegliendo di affrontare quella creatura fragile eppure solidissima che fu Emily Dickinson. Ribaltandone l’esistenza, trascorsa per la maggior parte del tempo chiusa nella stanza nella casa di Amherst, Cuocolo/Bosetti portano la voce di Emily per le strade, le piazze e i giardini di Torino con la loro Dickinson’s Walk. Muniti di cuffie e radiotrasmittente, gli spettatori seguono Roberta Bosetti, accompagnati dalla sua voce che dà corpo e respiro alle parole di Emily: le sue poesie così come le lettere. Parole che acquistano spessore e risonanze impensate e ogni volta diverse: il ritmo dei passi, le campane della chiesa, le auto e le chiacchiere dei passanti chiosano e donano sfumature ognora differenti e nondimeno sempre pregnanti. L’aria pare gonfiare, di musicalità e senso ulteriori, liriche e prose della poetessa statunitense, regalando così a Emily un’esistenza nuova e la possibilità di un viaggio non circoscritto alla propria stanza.
E di spostamenti – di popoli – tratta Birdie dei catalani di Agrupación Seňor Serrano mentre di donne auto-recluse in un proprio mondo non conforme alla realtà circostante parla La Buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco, spettacoli esemplarmente raccontati su PAC da Elena Scolari e da Paola Abenavoli.
Di una donna dall’esistenza breve ed esemplare ma anche di una donna che ha scelto il teatro come “professione” tratta invece Oh no Simone Weil!, spettacolo ideato e interpretato da Milena Costanzo. Un lavoro per il quale l’artista non è riuscita a ottenere una produzione e che, dunque,. è stata costretta a trasformare in un monologo, in cui il grido di protesta contro il sistema teatrale italiano si combina alla messa in scena di brani tratti dall’ultimo libro di Simone Weil, intitolato L’ombra e la grazia. Gonna e camicia scure, un fazzoletto al collo, stivaletti e zaino ingombrante, Costanzo compare in scena quale una sorta di scout: Nella prima parte dello spettacolo – piuttosto affastellata e istintiva – l’attrice inanella vari luoghi comuni – «ci vuole coraggio per uscire ad andare a teatro» – e sfoghi sul prevalere delle ragioni della burocrazia su quelle dell’arte nel nostro sistema, per poi inserire un’improvvisazione che vuole essere una sorta di “sfida” alle aspettative degli spettatori. In mezzo a tutto ciò, anche una raccolta di offerte per il ragazzo costretto a chiedere l’elemosina che ogni mattina Milena incontra mentre va a comprare le sigarette… Nella seconda parte è, finalmente, Simone Weil a parlare e qui l’interprete sa – con la voce e con semplici ma eloquenti coreografie – dare contemporanea corposità. Si parla di imparare ad accettare i fallimenti e a convivere con le proprie fragilità, di ricercare quell’intransigenza – in primo luogo con se stessi – che è unica strada per raggiungere quella “grazia” cui aspirava Simone Weil. Peccato che la prima parte dello spettacolo, così sfilacciata e irrazionalmente arrabbiata, vada in tutt’altra direzione…
E inedite forme di “santità” sono quelle immaginate da Massimo Sgorbani nei tre “canti per voce e tempesta” che compongono Causa di beatificazione, messo inventivamente in scena da Michele Di Mauro e magnificamente interpretato da Matilde Vigna. Tre donne – una prostituta-ragazzina nel Kosovo, una donna-kamikaze palestinese e una suora mistica – e altrettanti modi di essere in una società fortemente legata a ruoli preordinati e dunque rassicuranti: la ragazza ingenua, la madre ovvero la religiosa obbediente e mite. Tre donne e altrettanti modi di vivere l’amore che è perdita e mutilazione anziché aggiunta e compenetrazione, amore che è thanatos più che eros. Tre donne e un unico corpo e un’unica voce, quelli mutevoli e policromi di Matilde, che aderisce appieno al disegno registico che traduce in partitura musical-visiva la scrittura armonica, poetica e potente di Sgorbani. Uno spettacolo che è un viaggio ipnotico, disturbante e infine catartico nella nostra ben recondita interiorità.
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PLATONOV, un modo come un altro per dire che la felicità è altrove
di Anton Cechov
Riscrittura Marco Lorenzi, Lorenzo De Iacovo
Regia Marco Lorenzi
Style e visual concept Eleonora Diana
Costumi Monica Di Pasqua
Disegno luci Giorgio Tedesco
Con Michele Sinisi, Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D’Agostino, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Angelo Maria Tronca
Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Festival delle Colline/Fondazione TPE; con il sostegno di La Corte Ospitale – Progetto Residenziale 2018; in collaborazione con Viartisti per la residenza al Parco Culturale Le Serre
DICKINSON’S WALK
Regia Renato Cuocolo
Con Roberta Bosetti
Produzione Cuocolo/Bosetti, IRAA Theatre, Teatro di Dioniso
SUMMERLESS
Testo e regia Amir Reza Koohestani
Scenografia Shahryar Hatami
Costumi Shima Mirhamidi
Video Davoud Sadri, Ali Shirkhodaei
Musica Ankido Darash
Con Mona Ahmadi, Saeid Changizian, Leyli Rashidi
Produzione Mehr Theatre Group, in coproduzione con Kunstenfestivaldesarts, Festival d’Avignon, Festival delle Colline/Fondazione TPE, La Bâtie – Festival de Gèneve, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Mein, Théâtre National de Bretagne, Müncher Kammerspiele, La Filature – Scène Nationale de Mulhouse, Théâtre Populaire Romand
OH NO SIMONE WEIL!
di e con Milena Costanzo
Realizzato in collaborazione con Olinda, Danae Festival,Festival delle Colline/Fondazione TPE
CAUSA DI BEATIFICAZIONE
di Massimo Sgorbani
Regia, adattamento e progetto sonoro Michele Di Mauro
Luci e scene Lucio Diana
Suono Alessio Foglia
Video Giulio Maria Cavallini
Con Matilde Vigna
Produzione Festival delle Colline/Fondazione TPE
Gli articoli di Laura sono immaginifici, leggere le sue recensioni è come vedere gli spettacoli.